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L'americanizzazione del calcio

Francesco Gottardi

La Fifa appoggia l'Uefa e pone il veto sul circolo dei paperoni, show all'americana senza promosse o bocciate. Come la Mls, voluta dalla stessa Fifa: la contraddizione è solo apparente

Anche la Fifa, super partes per eccellenza, oggi ha categoricamente detto no alla Superlega. Sorvolando su un piccolo blackout storico: in origine era stata proprio la massima federazione calcistica internazionale a spalancare le porte a un campionato a circuito chiuso, senza promozioni o retrocessioni. La Major League Soccer nacque così, nel 1993, conditio sine qua non posta da Blatter per l’assegnazione dei successivi mondiali agli Stati Uniti. L’intento era la ‘footballizzazione’ del soccer. Nessuno poteva immaginare che sarebbe potuto accadere il contrario.

 

Che la rivolta dei 12 sia a forte trazione americana è evidente. Un club su tre – Milan, Arsenal, Liverpool e Manchester United – ha proprietà statunitense. E i tycoon delle inglesi hanno variamente mani in pasta e know-how anche fra basket, hockey, baseball e football (quello del Super Bowl, stavolta). Dalla Nba alla Nfl: la quintessenza del sistema delle franchigie. Funziona perché chi è dentro – i benefici del cartello, e ci dispiace per gli altri – può contare sulla drastica riduzione del rischio della competizione stessa: stagioni programmabili – dunque investibili – per gli anni a venire, nessuno spauracchio da retrocessione, il tabellone clap your hands a discapito delle curve. Chiarisce Florentino Perez, numero uno del Real e primo presidente della Super League: “Il calcio è l’unico sport davvero globale con più di quattro miliardi di appassionati”. Gli fa eco Agnelli: “I 12 club fondatori hanno una fan base che supera il miliardo di persone”. Nessun accenno a Madrid o all’Italia. All’Europa.

 

E si torna alla Fifa, che “disapprova una lega europea chiusa” proprio in nome di quei principi di “inclusività, integrità ed equa redistribuzione finanziaria”, tuttavia già saltati per la Mls. Grave autogol? Più un vizio di forma: “La missione primaria della Fifa”, spiega il medesimo comunicato, “è lo sviluppo del calcio a tutte le latitudini”. Dunque ben venga la soluzione americana, laddove le franchigie sono endemiche e funzionali allo scopo: la Mls raccolse un vuoto sportivo e l’eredità della diseconomica Nasl, diventando in poco più di vent’anni l’ottavo campionato più seguito al mondo.

 

Non c’è incoerenza, allora, nel bloccare l’importazione del modello nel vecchio continente. Il caso del parquet insegna: la nuova Eurolega divide gli animi e ad oggi è il torneo più simile al progetto Super League, per quanto la sua genesi sia profondamente diversa – lo scontro fra due federazioni, Fiba e Uleb, non l’ammutinamento di singoli club – e il basket si diffuse a partire dal 1891 da una palestra di Springfield, Massachusetts. Figuriamoci se ci toccano il football: un anno più tardi, quando gli Stati Uniti erano ancora 44, il campionato inglese prevedeva già promozioni e retrocessioni.

 

È ormai un altro mondo, un altro sport. Finora però – fermo restando il business – si sono preservati i criteri del sogno e della competizione. A questi, si sono appellati Uefa e calciatori: “Il fascino dei big match è che capitano una volta l’anno, non tutte le settimane”, l’amarezza di Mesut Ozil. Concetto chiaro. Anche in America: “Quando tutti saranno super… nessuno lo sarà più”. Questa però è la tag-line di un film.

 

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