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C'è chi dice no alla Superlega. L'eccezione tedesca

Giovanni Battistuzzi

Borussia Dortmund e Bayern Monaco sono scettici. E hanno le loro buone ragioni

Una lega che comprende le migliori venti squadre d’Europa, dove non si rischia la retrocessione, dove i diritti televisivi sono stellari e ci sono sponsor disposti a investire cifre incredibili pur di mettere in evidenzia il proprio marchio di fronte a un pubblico globale, sarebbe una sorta di paese di Bengodi per ogni presidente di una società di calcio. Niente più partite casalinghe contro squadrette nelle quali si riesce a malapena a riempire metà stadio, niente più contributi da dare alle serie minori, niente più seccature con club di media fascia che coalizzano per ottenere qualche soldo in più. Meno rogne e più guadagni: è quello che in estrema sintesi promette la Superlega, il mega campionato che vogliono far partire il prima possibile dodici tra le più importanti società calcistiche europee (dal Real Madrid alla Juventus, dal Manchester United al Liverpool). Altre arriveranno. Apparentemente è un’offerta che non si può rifiutare.

 

Eppure qualcuno ha detto no, grazie. Qualcun altro ci sta pensando, ma è più propenso a tirarsi fuori. Possibile? Sono pazzi? No, tedeschi. E hanno anche loro buone ragioni per tenersi (almeno per il momento) in disparte.

 

Il Borussia Dortmund ha fatto sapere, tramite l’amministratore delegato del club Hans-Joachim Watzke, che non ci sta. Il Bayern Monaco si è schierato con i gialloneri: "Non crediamo che la SuperLeague risolverà i problemi finanziari dei club europei sorti a causa della pandemia. Piuttosto, tutti i club d'Europa dovrebbero lavorare insieme per garantire che la struttura dei costi, soprattutto gli stipendi dei calciatori e le tasse degli agenti, siano in linea con i ricavi, per rendere più razionale il calcio europeo", ha commentato l'ad dei bavaresi Karl-Heinz Rummenigge. E pure il Paris Saint-Germain tergiversa.

 

Se per i parigini le ragioni di questa non presa di posizione sono prevalentemente politiche (il Qatar Sports Investments che detiene la proprietà del club non può permettersi di fare la guerra alla Fifa che gli ha permesso di organizzare i Mondiali), nei club tedeschi prevale uno scetticismo legato a considerazioni economico-sportive. Che si riallacciano a una vecchia storia di oltre un decennio fa.

 

Nel 2008 Franz Beckenbauer, allora presidente del Bayern, per spiegare al consiglio di amministrazione del club la sua ferma volontà di non voler più vedere Michael Ballack con la maglia dei Roten prese in mano una sedia. “Se una sedia ha quattro gambe è perché questo è il modo migliore per realizzarla in quanto unisce praticità ed economia di realizzazione”. Fece una pausa scenica prima di continuare: “Un club è come una sedia. E’ più pratico ed economico che abbia quattro gambe: i tifosi, gli sponsor, lo stadio, l’idea che tutto ciò sia un vanto e non un salvadanaio. Se crolla questo, crolla tutto”. Ballack chiedeva uno stipendio di gran lunga migliore, il Kaiser non era disposto a offrirglielo e preferì non incassare una trentina di milioni di euro dal trasferimento pur di non cedere al “ricatto” del giocatore.

 

La sedia di Beckenbauer divenne la sedia della Germania calcistica, una sorta di regola d’oro non scritta per evitare il patatrac. Il modello ha fin qui funzionato. La Bundesliga è salita al secondo posto tra i campionati più ricchi d’Europa (circa 4 miliardi di euro), ha il secondo giro d’affari complessivo d’Europa (oltre 11 miliardi considerando l’indotto), ha un bassissimo tasso di fallimenti societari. Un po’ per il modello gestionale del club (i soci-tifosi devono detenere almeno il 51 per cento delle quote), soprattutto per il “principio della sedia”, ossia l’accordo tra i due principali campionati tedeschi per il quale “nessuna squadra deve superare la soglia di insostenibilità”. E’ più un’avvertenza che una regola (chi lo supera non è sanzionabile), ma è ciò che ha permesso di far crescere il calcio in Germania. Il monte ingaggi della quasi totalità dei club tedeschi si è tenuto sotto il 50 per cento dei ricavi. Pure Bayern e Borussia, che sono i club più ricchi in Germania, sono sempre stati attenti a non superare questo limite.

 

“Se la dirigenza accettasse di andare in Superlega crollerebbe una buona parte del modello economico”, dice al Foglio Rudi Lukka, analista economico che per anni ha collaborato con il Bayern. “Un esempio: il caso Alaba. Lui voleva un super stipendio, la società non poteva darglielo. Non perché non avesse i soldi, perché altrimenti avrebbe dovuto scendere a patti con tutti. Dai giocatori ai tifosi. E questo non può accadere. In questi anni molti giocatori sono rimasti nonostante stipendi inferiori ai livelli di mercato e i supporter hanno pagato prezzi più alti che altrove. E questo per un solo motivo: il Bayern doveva essere unico e indipendente. Può reggere questo modello se il club decidesse di far parte della Superlega? Assolutamente no. Servirebbe un nuovo modello economico, un nuovo rapporto con i città e con i tifosi. Sempre che lo si possa trovare”.

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