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Marco Bollesan e la memoria del rugby

Marco Pastonesi

L'ex azzurro e allenatore della Nazionale rappresentava lo spirito di questo sport: ogni partita una guerra, ogni azione una battaglia, ogni gesto un eroismo, ogni ferita un onore, ogni cicatrice un racconto

Per spiegare lo spirito del rugby, Marco Bollesan non celebrava mete, non beatificava placcaggi, non osannava touche nell’alto dei cieli, ma raccontava – amava raccontare – questa storia. Il giorno dell’esordio in Nazionale, a 21 anni, contro la Francia, a Grenoble, il 14 aprile 1963, Bollesan ebbe un incontro ravvicinato del primo tipo – faccia a faccia – con il più rude e il più cattivo degli avversari. Si chiamava Michel Crauste, era soprannominato “le Mongol” per gli occhi a mandorla e i baffi spioventi, ma anche “Attila” per ovvi motivi bellici, e giocava nello stesso ruolo, terza ala. In una rimessa laterale Crauste usò le maniere forti, le uniche che conosceva o che comunque praticava. Era un modo per intimidire, nel suo caso terrorizzare, imporre la gerarchia dovuta all’anzianità e alla cattiveria. Il colpo aprì uno squarcio nell’arcata sopacciliare di Bollesan. Nove punti, ma di sutura. Nell’azione successiva il colpo, inatteso, fu restituito, forse con gli interessi. La partita si concluse con una soffertissima vittoria dei francesi, 14-12. E nel segreto degli spogliatoi, dove la storia è nuda e la verità svelata, Crauste e Bollesan si scambiarono la maglia. Il gesto di Crauste andava interpretato come una benedizione, un riconoscimento, un’investitura. Solenne.

 

Bollesan – aveva 79 anni - è morto domenica, poche ore dopo Massimo Cuttitta, pilone di quella Nazionale che ci avrebbe introdotto al Cinque Nazioni e di quella vincente al debutto nel Sei Nazioni. Chi sa di rugby, avrebbe potuto interpretare la dipartita di Bollesan come l’ultimo sostegno a un altro azzurro, di un’altra generazione, comunque compagno di squadra e mischia. Perché il rugby, il solo sport in cui il pallone si può e si deve passare soltanto indietro, pretende il continuo aiuto dei compagni. Un mutuo soccorso. Un mutuo pronto soccorso. E perché Bollesan incarnava quello spirito del rugby, anzi, lo spirito del rugby: ogni partita una guerra, ogni azione una battaglia, ogni gesto un eroismo, ogni ferita un onore, ogni cicatrice un racconto. Le sue cicatrici erano leggende. Come la leggenda di una partita in Galles nel 1963 “Arriviamo là, campo perfetto, spogliatoi lindi, c’era già un po’ di gente, tutti armati di birra, ovviamente – da “La meta più bella della storia” (Baldini+Castoldi) -. Ma non c’erano gli avversari. E sembrava tutto un po’ strano, all’inizio, non è che capivamo tanto che cosa sarebbe successo. Però dico che è meglio concentrarsi come se dovessimo giocare, anche se non si vede ancora nessuno. Poi arrivano i minatori. Capisci che lo sono perché, a parte essere grandi e grossi, come chi lavora con la propria forza, con le mani, erano neri di carbone. Fatto sta che erano proprio loro gli avversari: entrarono negli spogliatoi, si lavarono, ed erano pronti per giocare. Per loro era tutto normale, come respirare. Perché lì in Galles il rugby lo respiri”. Finì che lo Swansea segnò più punti di quella Nazionale italiana sperimentale, clandestina, ufficiosa. E finì che Bollesan rimediò il solito taglio, stavolta in testa, “l’ho detto, no, che sono cucito come un salame”. Fu portato al pronto soccorso, lui e anche un avversario. “Siamo lì ad aspettare il medico, che arriva, ci squadra, noi ancora vestiti da gioco. ‘Rugbymen?’, ci chiede, e senza neanche aspettare la risposta se ne va”. Immaginarsi Bollesan. “Torna poco dopo con due birre”. Immaginarsi Bollesan. “One and one is good, two and zero is a problem”, fu – secondo Bollesan, più a suo agio sul campo che non sui banchi, più familiare con i placcaggi che non con le lingue – l’aforisma del medico. “E ci spiega che prima avrebbe dovuto far partorire una donna, e poi sarebbe tornato a prendersi cura di noi”. Immaginarsi Bollesan. “E io ero lì, sul lettino, insieme a questo avversario, che non era più un avversario perché la partita era finita, ad aspettare che venissero a cucirci, bevendo una birra: credo potesse succedere solo in Galles, una cosa così”.

 

La maglia azzurra divenne la seconda pelle di Bollesan, il primo professionista del rugby in Italia quando il professionismo ufficialmente non esisteva: da giocatore, da capitano, da commissario tecnico, da team manager, da ambasciatore. E azzurro era l’orizzonte del suo ultimo domicilio conosciuto: una casa di riposo a San Bernardo, sopra Bogliasco, fra cielo e mare. Lì dove, già da qualche tempo, navigava vagando la sua memoria.

  

Il rugby è lo sport della memoria. Tutti gli sport ce l’hanno: per alcuni è letteraria (il ciclismo: da Vergani a Brera, da Malaparte a Pratolini, da Montanelli a Buzzati), per altri è anche cinematografica (la boxe: da “Lassù qualcuno mi ama” a “Toro scatenato”, da “Quando eravamo re” a “Cinderella man”), per altri ancora televisiva (la pallavolo: e YouTube è una cassaforte aperta e continua). Il rugby ha tutto questo patrimonio, ma anche di più: nei racconti, nei riti, nei miti. Quello che si tramanda (e che a volte si ricama) nelle club house, nei terzi tempi, perfino nei funerali. Al funerale di Bollesan, il discorso – breve, sentito, improvvisato – di Marzio Innocenti, nuovo presidente della Federrugby e antico capitano della Nazionale italiana allenata proprio da Bollesan, è stato una lezione magistrale di memoria rugbistica. E fra Spirito Santo e spirito del rugby, almeno quanto a generosità e altruismo, non c’è differenza.

  

Il rugby, aveva ragione Bollesan, “è una guerra, ma dopo viene la pace più bella del mondo”. Nelle sue sculture marmoree e lignee di arte sacra Valter Di Carlo, che vinse uno scudetto con L’Aquila, plasma i peccatori come se fossero estremi, gli angeli come se fossero ali, i santi come se fossero mediani. E la Compagnia atleti che a Napoli riuniva i rugbisti in servizio di leva era quella dei bersaglieri, più rappresentativi nella corsa che non i fanti (cui di solito si associano gli avanti, cioè i giocatori della mischia) e i cavalieri (i trequarti, cioè i giocatori della linea arretrata). Così, ogni volta che muore un rugbista (“Un rugbista non muore mai – si dice -, al massimo passa la palla”), la mancanza è immediata, la sofferenza autentica, la passione comune, il cordoglio comunitario, il dolore generale, e il funerale è di Stato. Lo Stato del rugby.

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