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sette per uno

Quando si spegne la luce. Federica Brignone e il momento di dire basta

Marco Pastonesi

La campionessa italiana ha trent'anni, è la più eclettica  fra le sciatrici al mondo. "Non avevo motivazioni, spero di ritrovarle, sennò non so se mi rivedrete la prossima stagione"

Chiude l’ultimo gigante del calendario, quarta all’arrivo e seconda nella classifica della disciplina, si sdraia a terra - e la sua terra è bianca fatta di neve - e ammette “non ce la faccio più”, spiega “non avevo motivazioni”, aggiunge “spero di ritrovarle” e annuncia “sennò non so se si mi rivedrete la prossima stagione”. Basta.

 

Federica Brignone ha trent’anni, è la più eclettica fra le sciatrici al mondo, dalla discesa allo slalom potrebbe sempre vincere, anche se il suo forte sono giganti, superG e – ovviamente – combinata, da sola o in parallelo. La sua specialità è non avere specializzazioni: una danza aggressiva o un volo artistico, fra traiettorie e pieghe su palcoscenici verticali. Ma l’impegno, che c’è sempre stato, la concorrenza la responsabilità l’aspettativa, che ci sono sempre di più, e la bolla antiCovid-19, che c’è da quest’anno, hanno stressato anche la strutturata – culturalmente, familiarmente, tecnicamente – Federica. Basta.

 

Prima o poi, per tutti, a tutti, arriva quel momento decisivo: mollare o ricominciare, attaccare la bici (e gli sci, e le scarpe, e la calottina) al chiodo o riattaccare riannodare riallacciare con preparazione fisica e mentale, allenamenti e alimentazione, ritiri e raduni, vigilie e docce, rituali e superstizioni, statistiche e medaglieri, conti in banca e conti con se stessi. Ma se si spegne la luce, quella intima, quella personale, quella esistenziale, non c’è più nulla che possa spingere ad andare avanti così, anche in un mondo che dovrebbe essere felice per la sua natura come lo sport. Basta.

 

Ci sono storie illuminanti quando si spegne la luce. L’altro giorno i Dodgers, baseball, la nascita a Brooklyn (1883), il trasloco a Los Angeles (1958), sette titoli di World Series (il più recento nel 2020), la squadra di Jackie Robinson (campione di diritti civili: per saperne di più “Il mio nome è Jackie Robinson” di Scott Simon, 66thand2nd), hanno rinnovato il contratto a Andrew Toles. Che aveva detto basta. La sua storia è letteraria, cinematografica, teatrale, ed è soprattutto vera: dopo tre stagioni ha lasciato la squadra e il baseball, come sparito, dissolto, disperso, finché è riemerso quando la polizia lo ha arrestato perché dormiva da vagabondo vicino a un aeroporto in Florida. Eppure, anche per lui, c’erano solide fondamenta sportive: il padre da linebacker nel football americano e la sorella da allenatrice nel basket. Pare che alla base dei suoi alti e bassi, dei suoi fuoricampo e fuoristrada, ci fosse un disturbo bipolare. Ma i Dodgers, invece di tagliarlo, lo hanno confermato. Andrew sta giocando l’inning più importante e i Dodgers lo stanno sostenendo. Altro che (questa la traduzione letterale) “imbroglioni”. Si racconta che i Dodgers abbiano ereditato il loro nome da “trolley dodgers”, quelli che schivano il tram. Se il postono suna sempre due volte, il tram a volte passa una volta sola. E qui, stavolta, sul tram ci sono saliti sopra, e cercano di farci salire anche Toles.

 

Pandemia e stress (e crisi economica) hanno moltiplicato i basta. Ad abbandonare – ed è la forma più grave di questo malessere – i ragazzi: pochi hanno la forza per fare dell’allenamento (senza agonismo) uno stile di vita o una disciplina morale, un appuntamento quotidiano o un’agenda settimanale. Ma ad abbandonare sono anche i più grandi, a volte all’improvviso. Come accadde a Barry John, e nel rugby il suo rifiuto è diventato leggenda. Mediano di apertura, cioè il numero 10, cioè il regista – con le mani e con i piedi – prima a Llanelli e poi a Cardiff, con il Galles e con i British and Irish Lions. “La prima volta che c’incontrammo – racconta Gareth Edwards, mediano di mischia, dunque il collega dirimpettaio negli anni d’oro del Galles, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta -, quando gli domandai dove volesse ricevere la palla, mi disse: ‘Tu la passi, io lo prendo’. Ecco chi era Barry: tonnellate di fiducia e altrettanta abilità”. Lo avevano soprannominato non solo “the King”, il re, ma addirittura “l’uomo che camminava sull’acqua”, tanto per dare una dimensione divina ai suoi colpi di genio. E quando un inglese obiettò, “non è mica onnipotente”, un gallese ribatté, “no, ma è ancora giovane”. Eppure, successe all’inaugurazione di una banca, quando una donna s’inginocchiò davanti a lui, o forse fu un cassiere, e per Barry John fu troppo, troppe responsabilità e troppe aspettative, troppe pressioni e troppa passione, e disse basta. Aveva ventisette anni e il meglio doveva ancora venire. Lo stesso Gareth Edwards, il suo collega dirimpettaio, lo pregò di cambiare idea, c’era anche un tournée in Rhodesia, l’attuale Zimbabwe, ma Barry John aveva già calciato, per l’ultima volta, il pallone in mezzo ai pali.


Pallavolo: Superlega, semifinali uomini, Perugia-Monza e Civitanova-Trento.


Basket: tre sole partite, Milano batte Cantù, Venezia travolge Trieste, Treviso s’impone a Cremona.


Ciclismo: dopo la Milano-Sanremo, il calendario si ramifica, in Italia dal 23 al 27 la Settimana internazionale Coppi e Bartali.


Tennis: nove italiani nei primi cento della graduatoria mondiale per la prima volta nella storia. Matteo Berrettini numero 10, Fabio Fognini 17, Jannik Sinner 31, Lorenzo Sonego 34, Stefano Travaglia 70, Salvatore Caruso 85, Marco Cecchinato 90, Andreas Seppi 94 e Lorenzo Musetti, reduce dalla semifinale ad Acapulco, 97.

  

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