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Arbitro razzista, e pure rumeno

Nicola Pedrazzi

La sospensione della partita tra PSG e Istanbul Basaksehir racconta un razzismo europeo, non americano

La storia edificante che i teleschermi della Uefa Champions League ci hanno propinato nei giorni scorsi fa così: i calciatori del Paris Saint-Germain e dell’Istanbul Başsakşsehir si stanno affrontando da 13 minuti, quando Sebastian Coltescu, ignobile quarto uomo di nazionalità rumena, dà del “negro” al camerunese Pierre Webó, viceallenatore del Basşakşsehir; le squadre concordano sulla gravità dell’accaduto e abbandonano il campo per protesta, con saggezza e responsabilità la Uefa sospende la gara e ne affida la prosecuzione a un nuovo quartetto arbitrale olandese; il giorno seguente, prima del secondo calcio d’inizio, tutti i calciatori si radunano attorno al cerchio di centrocampo e si inginocchiano con il pugno alzato in solidarietà alla causa antirazzista del movimento americano Black Lives Matter. Finalmente un bel messaggio proveniente da uno stadio, applausi. Via radio il racconto mi aveva scaldato. Poi sono atterrato bruscamente sui fatti, e ora provo imbarazzo per la faciloneria del mio primo sentimento.

 

La melassa da fotoromanzo, spalmata da tutti i media italiani, ha sepolto le domande di merito. Provo a rimetterle in fila. Prima domanda. Cosa è successo in campo? Sulla base delle immagini disponibili online nessuno può dire di saperlo. Quello che è certo è che per contestare un’espulsione rimediata da uno dei suoi viceallenatori la panchina turca ha accusato il quarto uomo Coltescu di razzismo. I quattro arbitri presenti in campo erano rumeni, l’audio conferma che uno degli assistenti del direttore di gara ha descritto Pierre Webó con l’espressione “ala negru” (che in rumeno significa “quello nero”). Le indagini Uefa sono ancora in corso, nessun potere terzo, sportivo o giudiziario, nessuna ricostruzione giornalistica degna di questo nome ha accertato che sia stato (solo) Coltescu a pronunciare le parole incriminate, il giorno dopo alcune congetture formulate dalla stampa rumena per esempio le hanno attribuite al guardalinee che agiva su quella fascia, Octavian Sovre.

 

In Italia l’incertezza del quadro non ha incoraggiato a capire cosa fosse accaduto, ma a scavare nel passato torbido del quarto uomo razzista: dalle sviste arbitrali al tentativo di suicidio, dalla morte dei genitori al divorzio. Un arbitro svedese sarebbe stato trattato nello stesso modo dalla Gazzetta dello Sport?

 

Secondo. Che un assistente rumeno abbia detto “ala negru” è certo, ma l’audio chiarisce che aveva come unico obiettivo quello di indicare al direttore di gara la persona da espellere. L’ipotesi che una caratteristica fisica sia stata menzionata unicamente in quanto funzionale all’identificazione del tesserato da sanzionare non è stata presa in considerazione da nessun commentatore, eppure il viceallenatore Pierre Webó è l’unico membro dello staff del Başsakşsehir ad avere la pelle scura. Se in una squadra di bassi il quarto uomo avesse detto “quello alto” la partita sarebbe stata sospesa? La pelle scura è una caratteristica fisica innominabile, a prescindere dal contesto e dalle intenzioni con cui la si menziona? Le fototessere dei passaporti sono razziste? Lo chiedo davvero, non sono domande retoriche.

 

Il terzo punto ha a che fare con le certezze che in genere si contrappongono a questi dubbi: nella storia delle sopraffazioni tra esseri umani il colore della pelle non è equiparabile al colore dei capelli, dobbiamo tenerne conto. Proprio perché è così non si capisce perché vogliamo che una parola europea che in inglese si traduce “black” – Black Lives Matter, appunto – sia caricata del significato e del peso sociale che sempre nell’anglofonia ha la parola “nigger”. Luoghi diversi hanno storie diverse. Il rumeno è una lingua neolatina, “negru” conserva la “g” che dà fastidio perché è la versione volgare del niger-nigra-nigrum che declinavamo a scuola, ma significa semplicemente “nero”, un colore privo di connotazioni razziali o discriminatorie (nei paesi che non hanno avuto un impero coloniale o che non ne sono un derivato accade). Non esistono in lingua rumena espressioni alternative simili al nostro “di colore”, per il semplice fatto che persone di colore sono quasi del tutto assenti nel paese. Questo ovviamente non significa che in Romania il razzismo non esista. Esiste ed è anche molto forte, come in tanti paesi dell’area, ma colpisce principalmente le minoranze Rom. Se una brutta persona rumena vuole offenderti per la tua pelle non ti dirà “negru” (che non è un’offesa), ti dirà “cioară”, che letteralmente significa “corvo” ma di fatto vuol dire “zingaro”.

 

A proposto di zingari: quarto punto. Nessuno si è chiesto perché l’arbitro Ovidiu Hațegan avesse espulso Pierre Webó, la Uefa ha annullato le sanzioni e i giornalisti hanno dimenticato che la panchina della squadra turca stava dando in escandescenze da diversi minuti. Stando alla ricostruzione di Fanpage, a seguito di un’ammonizione comminata a uno dei suoi giocatori l’allenatore del Basşakşsehir Okan Buruk avrebbe urlato all’arbitro Hațegan: “Questa non è la Romania”. Concetto poi ampliato durante il parapiglia – “Al mio paese dicono che in Romania sono tutti zingari, ma io a voi non posso dire zingari” – e poi chiosato da una voce fuori campo difficile da attribuire: “Questa è la Champions League, non la lega rumena”. Ammesso che siano state davvero pronunciate in questi termini, e al netto delle frasi tremende che vengono pronunciate sui campi da calcio (cosa che rende fastidiosamente ipocrite le improvvise prese di coscienza degli addetti ai lavori), queste sì, sarebbero frasi discriminatorie, peraltro ascrivibili al doloroso deficit di reputazione che i paesi dell’est continuano a scontare in Europa, non per niente eravamo a Parigi. La scena di Kylian Mbappe, multimilionario campione del Mondo, che alla stregua di un padrone di casa chiede allo spaesato arbitro rumeno di allontanare il suo collaboratore altrimenti non si prosegue, più che raccontarci la presa di coscienza civile di un atleta descrive i rapporti di forza che esistono tra Francia e Romania.

   

E veniamo così al quinto punto, il più grave e il meno affrontato: quello politico. La Uefa ha sospeso e ripreso la partita con una procedura mai vista, che non è rinvenibile né nel suo regolamento – che impone ai club l’obbligo di disputare la gara, pena il 3-0 a tavolino della squadra che per prima abbandona il campo – né nello stringente protocollo contro il razzismo, ideato non certo per gli arbitri – professionisti che aderiscono ai valori della manifestazione di cui sono garanti ufficiali – ma per i tifosi e i tesserati. Protocollo che in ogni caso prevede tre step di interruzione prima dell’annullamento definitivo della gara. Sul piano sportivo le domande si sprecano – utilizzando quali previsioni la Uefa ha deciso di riprendere la stessa gara il giorno dopo? Quali precedenti esistono e quali precedenti si creano? – ma è evidente che un decisionismo di questo tipo poggia placet politici. Su questo piano sarebbe stato rilevante ricordare che strumentalizzazioni mediatiche da parte del club turco si temevano sin dalla vigilia, perché il Basşaksşehir è una “squadra di stato”, di proprietà del ministero turco per la Gioventù e lo Sport. Nel 2014, quando il governo la acquisisce, è un club minore, Erdogan sceglie di spararlo in orbita con investimenti fuori mercato perché funzionale al suo progetto politico (il sobborgo di Basşakşsehir lo ha costruito lui negli anni Novanta, è la sua “Milano due”, il feudo del regime in una Istanbul per lo più ostile). E’ quindi molto probabile che la decisione di abbandonare il campo senza se e senza ma sia stata avvallata da Ankara ed è triste constatare che invece di smarcarsi contrapponendo una diversa versione dell’accaduto non soltanto i giocatori e lo staff del Paris Saint-Germain ma l’Uefa, il governo francese e il governo rumeno (membri dell’Unione europea) si siano appiattiti sulle immediate denunce di Erdogan, che dopo le recenti schermaglie con Macron sull’islam non vedeva l’ora di dare lezioni sul razzismo in territorio francese. In quanto a debolezza politica le dichiarazioni del ministro dello Sport francese Roxana Maracineanu, che ha plaudito alla “decisione storica degli atleti” – con l’aggravante di essere di origini rumene, e dunque consapevole del significato della parola “negru” –, sono seconde solo alle dichiarazioni della autorità rumene, che invece di difendere i propri arbitri hanno sostanzialmente chiesto scusa ai paesi ricchi per non sapersi ancora comportare a tavola.

   

Lo scorso 8 dicembre al Parco dei Principi è andata in scena tutta la confusione (e la bruttezza) del nostro tempo, della nostra Europa. L’insegnamento da trarre era banale: a scanso di equivoci, in competizioni internazionali è doveroso usare lingue veicolari, la carenza della terna rumena è professionale. Ma no, si è preferito volare lontano, creare mondi, ergersi. Nel nome dell’antirazzismo di cui si fa paladina – e dei diritti tv al quale non si rinuncia per accertare i fatti – la Uefa ha concesso un gol d’immagine a un regime autoritario e razzista; nel nome del rispetto che si deve a ogni diversità, un principio che amiamo sbandierare nei nostri post emozionati di noi stessi senza praticarlo mai, il pubblico connesso ha finito per biasimare la lingua e la cultura rumena; un paese, la Romania, che alla pari di tanta Europa d’oltre cortina fatica a superare i complessi e i sensi di colpa (l’Ungheria di Viktor Orbán e la Bulgaria di Bojko Borisov sono lì a dimostrare cosa succede quando chi tratti da bifolco a un certo punto si stufa di chiederti scusa di esistere).

   

Un polpettone cucinato anche grazie al narcisismo dei calciatori tra i più pagati e pettinati del pianeta, che per regalarsi il sogno di giocare ai giocatori dell’Nba hanno contribuito alla deleteria americanizzazione del dibattito europeo in tema di rispetto e convivenza tra le minoranze. A proposito di Nba, pare che a chi gli chiedesse di prendere posizione sulla questione razziale in North Carolina un Michael Jordan in piena carriera abbia risposto: “Anche i repubblicani comprano le Nike”. Nell’apparente cinismo di questa frase americanissima – che tanto dispiacque a un giovane attivista di nome Barack Obama e che certamente non è da idealizzare – c’è però tutta la serietà e in fin dei conti la modestia del campione conscio dei suoi limiti, dello sportivo che sa che l’unico esempio che può consegnare alla società è dentro al campo, e che fuori dal rettangolo la sua importanza non esiste. Vogliamo fare gli americani? Almeno scegliamo come.

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