Il Foglio sportivo
E poi rimase solo il tifoso sul sofà
Senza ultras e con i fan-consumatori collegati da casa, il calcio cambia epoca e smette di essere comunità
Anatomia di un tramonto. “Intorno al monastero si raccolsero, nei lunghi secoli del trapasso alla nuova età, vincitori e vinti, sotto la tuitio di un santo, patrono e quasi sovrano effettivo, possessore di beni e di sudditi”. Così scrive Raffaello Morghen in Civiltà medioevale al tramonto, un saggio apparso quasi mezzo secolo fa. Oggi che riconosciamo il crepuscolo di un’altra èra, siamo portati a trovare in tutti i testi che parlano della “fine di un mondo” – siano studi storici o i romanzi di Musil e Sandor Marai che accompagnano la disintegrazione dell’Impero Asburgico – una lezione più generale, che riguarda tutte le epoche di passaggio.
Ha brillantemente argomentato su queste pagine Giovanni Francesio come “non c’è niente, niente, che rappresenti meglio la fine del Novecento come i nostri stadi vuoti degli ultimi mesi, relitti di un mondo finito, cattedrali di un altro tempo, tra l’archeologia e Call of duty”.
L’immagine delle gradinate deserte o, peggio ancora, riempite grazie alle possibilità tecniche della televisione da un grottesco pubblico virtuale composto da milioni di pixel, ci angoscia profondamente non solo perché ci parla di un presente difficile. L’emergenza sanitaria, infatti, non ha fatto che accelerare vertiginosamente e rendere inequivocabile la rottura di un modello – quello dell’identificazione fra l’uomo della strada e l’eroe sportivo – che ci ha accompagnato per cento anni, dalla fine della Grande guerra all’altro ieri.
Se ora ci struggiamo di nostalgia nel rivedere su YouTube i gol di Pablito Rossi e Totò Schillaci, o nello sfogliare un vecchio album Panini in cui accanto a Platini e Maradona appaiono Juary e Dirceu, è perché ci appaiono reperti di una perduta età dell’oro, quando gli stadi erano stracolmi, per vedere i gol si attendeva 90° minuto ed essere giovani non era una colpa. Nessuno ci aveva avvertito che quel tempo non si sarebbe prolungato in eterno, né che un giorno avremmo provato un solenne imbarazzo di fronte alle casacche della nostra squadra del cuore – attillate come maglie da ciclismo, virate in ogni tinta e tempestate di loghi – al punto da rimpiangere le loro antenate in lanetta, quelle con i “colori giusti”, il caro vecchio emblema societario e lo sponsor unico ricamato a punto catenella. Eppure, a ben vedere, i segnali della metamorfosi erano sotto gli occhi di tutti. E, siamo onesti, noi stessi all’inizio non la chiamavamo “decadenza” ma “progresso”.
I vincitori e i vinti. È tempo di una vertigine a buon mercato. Proviamo a sostituire nella citazione di Morghen il monastero con il gioco del calcio; trasformiamo i “lunghi secoli” in un pugno di stagioni trascorse al galoppo – non s’era ragazzi giusto l’altro ieri? – e risulterà fatale identificare la figura del santo con la televisione, “patrona e quasi sovrana effettiva” dello sport contemporaneo.
Viene spontaneo, a questo punto, domandarsi chi siano i “vincitori” e chi i “vinti”. I primi potrebbero ben essere i tifosi da salotto, gli acquirenti di abbonamenti delle piattaforme televisive, i sostenitori tiepidi che s’appagano d’un gadget pagato a caro prezzo sullo shop ufficiale della squadra del cuore; tutti coloro che, in ultima analisi, hanno tratto godimento dal nuovo corso.
Gli sconfitti senza rimedio, invece, sarebbero i sostenitori più passionali, coloro che affollavano la curva e affrontavano disagevoli trasferte per seguire la squadra, gli stessi che esibivano nei settori ospiti caustici striscioni a due aste – “Noi qua, voi sul sofà” – per dileggiare i compagni di fede più tiepidi e prudenti, gli “occasionali” che si astenevano dal manifestare il proprio sostegno con la presenza.
È una spiegazione che pecca di manicheismo: nessuno è innocente, ché persino il tifoso più appassionato, prima o poi, è entrato a far parte del meccanismo che ha corrotto il calcio trasformandosi in semplice cliente. Resta il fatto che la componente più accesa delle tifoserie ha mostrato sin da tempi non sospetti una grande lungimiranza nell’individuare i segnali del cambiamento in agguato.
Una sottocultura italiana. Dimenticate tutto ciò che credete di sapere sugli ultrà. O, perlomeno, quel che vi racconta di loro qualche opinionista benpensante. Gli ultrà non coincidono con una mandria di scalmanati in odor di fascismo pronti a profittare d’una manifestazione per spaccare vetrine e incendiare cassonetti. E neppure con la zona grigia in cui i ricatti ai club per ottenere biglietti gratis si sovrappongono ad altri, ancor più illeciti, traffici.
Se conoscete solo quegli ultrà, concedetevi un brevissimo ripasso sull’unica vera sottocultura italiana del secondo Novecento: i gruppi del tifo organizzato sono fioriti nei primi anni Settanta, la stessa stagione turbolenta in cui Morghen dava alle stampe il proprio saggio, l’eroina faceva strage di giovani e la violenza politica incendiava le maggiori città del paese. Se sono arrivati fino a oggi, è perché le curve sono state capaci di rappresentare un luogo importante di socializzazione, uno dei pochi in cui il praticante avvocato di buona famiglia sta gomito a gomito con il marginale appena uscito dalla comunità, e forse l’unico dove i militanti dei centri sociali, i simpatizzanti di partiti di tutto l’arco costituzionale e gli estremisti di Destra hanno trovato il modo di convivere a pochi gradoni di distanza.
Certo, ci sono anche i matti e i criminali, ma bollare in questo modo centinaia di migliaia di persone spalmate su tre generazioni abbondanti è un modo di pensare disgustosamente elitario, parente stretto di quello che ha condannato la Sinistra a perdere presa sulla gente comune per arroccarsi nei salotti.
Per restare a un termine che la Sinistra – quella d’antan – praticava volentieri, gli ultrà sono una massa popolare, dunque ricca di vitalità e contraddizioni: accanto ai casseurs dal passamontagna facile ci sono i miti propensi a lanciare campagne di solidarietà, e i pluripregiudicati hanno cittadinanza in curva tanto quanto gli irreprensibili padri (e madri) di famiglia.
Per comprendere cosa tenga insieme persone tanto diverse, sarebbe bene sospendere i pregiudizi e valutare il loro idem sentire, il loro sistema di valori, lo stile di vita in cui si ritrovano anche lontano dagli stadi – d’altronde, si è ultrà “sette giorni su sette” – e l’autorappresentazione che forniscono di sé stessi. Né buoni, né cattivi, se è permesso uno spoiler, né Né camerati, né compagni, o meglio non necessariamente l’una o l’altra cosa.
Se proprio non riuscite a farveli stare simpatici, poco male; in fondo neanche voi piacete tanto a loro. Al peggio, prendetelo come un rispettoso esercizio di carità: in fondo è di vinti che si parla. E se Sallustio e Tacito diedero voce a Mitridate, Giugurta e i capitribù germanici, i grandi nemici sconfitti di Roma, anche voi potete ben sospendere il giudizio e concedere l’onore delle armi ai “ribelli delle curve”.
No al calcio moderno. Gli ultrà si sono sempre considerati “gli ultimi romantici”: rivendicano apertamente il loro ruolo di custodi del “meraviglioso gioco” come manifestazione popolare, vivono in maniera devota il rapporto fra squadra e territorio, e coltivano per natura una visione del mondo in cui la sconfitta sul campo è preferibile alla fuga indecorosa. Questo per dire che sentirsi “vinti” non solo non li spaventa, ma in qualche modo suona alle loro orecchie di orgogliosi bastian contrari come una conferma di essere nel giusto.
Se esiste uno slogan che è stato in grado di accomunare l’intera galassia del tifo organizzato, questo è “No al calcio moderno”, un rifiuto tanto netto quanto carico di implicazioni e presagi.
Il loro rifiuto del “calcio moderno” significa un’opposizione radicale e consapevolmente di retroguardia a un ampio ventaglio di fenomeni: gli ingaggi stratosferici dei calciatori, il caro biglietti, il calendario disintegrato da anticipi e posticipi, le limitazioni alle trasferte, il progetto di una “superlega” europea che svuoterebbe di significato i tornei nazionali, ma anche i servizi acchiappaclic sulle mogli in bikini dei campioni, il proliferare di terze e quarte maglie ispirate unicamente dai ghiribizzi del fornitore tecnico, e il sorgere di nuovi club avulsi dal contesto sociale di un territorio, come quelli fioriti ai quattro angoli del Vecchio mondo sotto l’egida della multinazionale Red Bull o le “filiali” del Manchester City. Non male, vero?
Contro il calcio moderno è il titolo di un recente saggio pubblicato da Odoya e firmato da Pier Luigi Spagnolo, giornalista particolarmente attento al fenomeno e già protagonista di un caso editoriale col precedente titolo I ribelli degli stadi. Dal suo particolare osservatorio, Spagnolo esprime il condiviso timore che la risposta dei “padroni del calcio” all’attuale emergenza sanitaria rappresenti una sorta di prova generale: “Temo che la sperimentazione di questi mesi – pochi spettatori, seduti e senza tifo organizzato – possa diventare la norma anche in futuro, trasformando gli stadi in teatri, sempre più costosi e con i posti assegnati, ultimo passaggio di un calcio sempre più elitario e gentrificato”.
Oggi a me, domani a te. “Leggi speciali: oggi per gli ultrà, domani per tutta la città”. Questo slogan, popolare nelle curve degli anni Novanta, era teso a stigmatizzare la misura ancora giovane delle diffide, ritenute da governi di diverso colore come elemento fondativo del cosiddetto “modello inglese”, sbandierata panacea a tutti i mali del calcio.
Comunque la si pensi sul tifo organizzato, va riconosciuto che la componente più lucida del movimento ultrà italiano avesse ben chiaro a cosa preludeva l’adozione di misure emergenziali: in primis a una punizione esemplare per il movimento stesso (via i tamburi, via le torce, via gli striscioni non autorizzati) e, più in generale, a una stretta repressiva contro chiunque fosse portatore di dissenso.
Che non si trattasse di paranoia o semplice vittimismo è apparso inequivocabile con gli abusi di potere su larga scala andati in scena a Genova nel 2001 e, in maniera meno plateale ma non meno drammatica, in uno stillicidio di episodi che vanno dal martirio di Federico Aldrovandi in una strada di Ferrara agli irresponsabili colpi di pistola che hanno portato alla morte di Gabriele Sandri; non è un caso che i volti di “Aldro” e “Gabbo”, riprodotti su adesivi e magliette, striscioni e bandiere, siano diventati vere e proprie icone delle curve italiane.
Al di là delle responsabilità dei singoli, appare inequivocabile che qualcosa nella politica di prevenzione delle violenze sia andato storto: il progressivo inasprirsi delle norme non ha portato al termine degli scontri, che semmai si sono trasferiti dall’interno degli impianti ai loro dintorni, agli autogrill e ai parcheggi.
Nei trent’anni d’adozione del “modello inglese” le presenze medie negli stadi di Serie A sono scese dalle 33.000 dei primi Novanta alle 25.000 del 2018-19, l’ultimo campionato pre-emergenza sanitaria. Il progetto di riportare le famiglie in gradinata, in altre parole, si è risolto in un misero fallimento.
In compenso, mentre il “campionato più bello del mondo” si accartocciava su sé stesso perdendo progressivamente prestigio rispetto alla Premier e alla Liga, la santa patrona televisione ha preso ancor più saldamente il controllo di “beni e sudditi”.
O tutti o nessuno. L’unico club italiano che ha avuto la capacità e la forza economica di leggere i tempi nuovi è stato la Juventus.
Il club bianconero è stato il primo a dotarsi di uno stadio di proprietà, calibrato sulle nuove proporzioni del pubblico. Se i 70.000 posti del gelido Delle Alpi restavano in buona parte vuoti, nel nuovo Stadium da 41.000 persone, strategicamente collocato al centro di una grande area commerciale e di gran lunga più comodo e sicuro dei suoi predecessori – Spagnolo lo definirebbe “gentrificato” – oggi risulta impresa ardua trovare un biglietto. Per tutti gli altri, e parliamo di una squadra il cui “bacino d’utenza” sfiora i nove milioni di tifosi solo in Italia, c’è la televisione, capace di garantire alla Juve un ricavo triplo (206 milioni contro 70 nel 2018-19) rispetto alla biglietteria. Nel corso di un decennio in cui ha letteralmente monopolizzato lo Scudetto e tentato invano l’assalto all’Europa, la Juve ha anche rivoluzionato la propria immagine; il varo del logo “J” al posto del tradizionale blasone di derivazione araldica ha accompagnato un forte incremento dei ricavi dal merchandising che, trascinati dall’ingaggio di Cristiano Ronaldo, nell’anno in esame hanno raggiunto i 44 milioni.
Fatte le debite proporzioni, quel che vale per la potente Juventus vale per tutte le società: la presenza allo stadio, tradizionale fonte d’introiti dei club, si è fatta una voce residuale in bilancio, mentre i diritti tv risultano insostituibili per il loro sostentamento. La prova, tanto grottesca quanto inequivocabile, è stata fornita dalla necessità di riprendere lo scorso campionato in piena estate pur di riscuotere l’ultima rata dei diritti televisivi, il cui mancato incasso avrebbe fatto collassare economicamente l’intero sistema-calcio italiano.
Come tifosi non riusciremmo a restare indifferenti alle sorti della nostra squadra neppure in un’insignificante amichevole, ma è difficile trovare divertente – per non dire etico – un torneo che deve procedere sull’orlo del baratro unicamente per onor di firma. Ha ancora senso guardare partite giocate nel vuoto pneumatico, o seguire un dibattito sportivo in cui gli aggiornamenti sui focolai hanno preso il posto delle “ultime dallo spogliatoio”, e le recriminazioni circa una “debole positività” fanno discutere come un rigore dubbio?
La risposta degli ultrà è stata netta: un calcio così non ha ragion d’essere. E loro per primi si sono autoreclusi fuori dagli stadi, rinunciando alla propria quota di ingressi per lanciare quello che rischia di essere l’ultimo slogan della loro storia cinquantennale, il ruvidamente ecumenico: “O tutti, o nessuno”.
È una frase che suona quasi infantile nella sua istintiva richiesta di un trattamento uguale per tutti, e in fondo non così diversa dagli appelli di Papa Francesco secondo i quali “nessuno si salva da solo”.
La verità è che, nel grave momento che ci troviamo a vivere, tutti noi – tifosi in pantofole e ultrà, vincitori e vinti – siamo accomunati dallo stesso destino come i “volghi sparsi” che Morghen descrive radunati all’ombra dei monasteri. Feriti dal presente e incapaci d’indovinare quale forma prenderà il futuro, scontiamo tutti insieme la condanna alla nostalgia, in attesa di intravedere i segnali d’un Rinascimento che ancora non si mostra.