Educazione fisica negli anni Cinquanta (foto Archivio LaPresse)

Il Foglio sportivo

Andare oltre l'ora di ginnastica

Fabio Pagliara

Ritenere sacrificabile lo sport a scuola è un errore. Appello per un  patto educativo

Chi ha deciso che scuola e sport siano “nemici”? Chi si ostina a non capire il ruolo sociale, sanitario, educativo della pratica sportiva, soprattutto quando viene praticato a partire dalla scuola, avamposto fisico e culturale in quartieri spesso privi di spazi accessibili? Cercare un colpevole sarebbe un esercizio inutile, visto che i colpevoli sono tanti e ben differenziati nel tempo e nelle responsabilità.

 

La situazione epidemiologica del Covid-19 ci riporta a qualche mese fa in termini di misure urgenti per affrontarla, ma la questione della riapertura delle scuole, e dello sport, rimarrà sul tavolo anche in caso di nuove restrizioni, perché si riproporrà tutte le volte che si tenterà di tornare a una presunta normalità.
Subito dopo il lockdown la scelta, culturalmente inaccettabile, è stata quella di subordinare la riapertura degli spazi per lo sport all’interno delle scuole al reperimento di aule per la normale attività didattica.

 

In soldoni, palestre scolastiche chiuse o trasformate in aule, in ossequio alla necessità di prevedere un adeguato distanziamento, con la conseguenza di azzerare le attività normalmente svolte in collaborazione con associazioni sportive e società.

 

È chiaro si tratti di una condizione emergenziale, ma la leggerezza con la quale si cancella lo sport dal percorso curriculare dei ragazzi, anche in presenza di possibili soluzioni alternative, è l’indicatore di un errore di prospettiva che, protratto negli anni, arrecherà danni irreversibili a tutto il sistema educativo. Molti più danni di quanti non se ne siano arrecati considerando la vecchia educazione fisica un fastidio, un’ora buca, una camera di compensazione fra l’ora di italiano e quella di matematica.

 

Sport e scuola dovrebbero viaggiare in parallelo, proprio perché rappresentano un veicolo decisivo per annullare le distanze sociali di partenza, mettendo tutti sullo stesso piano e garantendo una “formazione” che prescinde dalla condizione economica dei singoli e delle rispettive famiglie. Famiglia, scuola e sport sono le tre grandi agenzie educative su cui si basa il progetto di crescita dei nostri ragazzi.

 

Sono la base di quel necessario “patto globale per l’educazione” che perfino Papa Francesco evoca.

 

E la dad, la famigerata didattica a distanza, non può che amplificare le differenze, proprio perché chi ha di più si organizzerà meglio, con strumenti migliori e senza preoccuparsi di chi resta indietro. Quali danni arrechino le palestre chiuse, emergenza o meno, è il filo conduttore di questo ragionamento, per cui non è il caso di ripetersi.

 

Lo sport divide, usando l’inglese per parafrasare quanto accade nel campo dell’innovazione tecnologica, ha creato invece regioni di serie A, quelle più attente alla creazione di strutture scolastiche dotate di una impiantistica interna ed esterna all’avanguardia, e regioni di serie B, dove le palestre sono aule adattate, nelle quali piove dentro, fra umidità e ambienti malsani.

 

È un pezzo della famosa questione meridionale dello sport, già affrontata in altra occasione: è impensabile immaginare una crescita culturale su tutto il territorio nazionale se si combatte quotidianamente per la “sopravvivenza” da Firenze in giù, se prima del benessere psicofisico dei ragazzi vengono le supreme esigenze della didattica, “quella vera”. E questo equivoco, volendo escludere il disegno preciso, ha causato diversi errori di sistema: una società di sedentari cronici, ammalati di mancanza di attività fisica, peso enorme per un sistema sanitario ipertrofico nelle spese, incapace di reagire di fronte alle nuove tendenze in termini di prevenzione e di cure ausiliarie, nelle quali una regolare attività sportiva viene considerata benefica e necessaria. L’obiettivo primario che la pubblica amministrazione dovrebbe perseguire è la tutela della salute della popolazione. Questa forma di tutela si dovrebbe esprime da un lato nelle forme di prevenzione dalle patologie e dall’altro nella minimizzazione dei fattori di rischio. A livello internazionale, ad esempio, è riconosciuto che il sovrappeso e l’obesità sono un fattore di rischio per l’insorgenza di patologie cronico-degenerative e una sfida prioritaria per la sanità pubblica. In particolare, l’obesità e il sovrappeso in età infantile hanno delle implicazioni dirette sulla salute del bambino e rappresentano un fattore di rischio per lo sviluppo di gravi patologie in età adulta. Si fa abbastanza? Chiudere le palestre scolastiche è un segnale in questa direzione?

 

La domanda è retorica.

 

Palestre chiuse in scuole aperte non fanno altro, inoltre, che favorire le disuguaglianze, creando lo sport per le élite, per quelli che possono permettersi di rivolgersi al circuito privato del tempo libero.

 

Non si partirà più dalla stessa posizione.

 

Chi sta socialmente meglio potrà studiare meglio di chi non ha le stesse possibilità. 

 

Triste e semplice.

 

Alla faccia del merito e della giustizia sociale.

 

È un disastro culturale quel cartello “chiuso” davanti alla porta delle palestre scolastiche, non adesso che salgono i contagi, ma quando tutto riapriva e si chiedeva responsabilità: la stessa dimostrata anche dagli sportivi professionisti e dalle palestre private, sottoposti a protocolli rigidissimi e per questo fra i luoghi nei quali meno si contano focolai nelle nostre città. E questo a discoteche aperte, con i luoghi del divertimento presi d’assalto fino a settembre inoltrato, con assembramenti come regola e non come eccezione. Un disastro culturale fatto di simboli: la parola sport non esiste nella Costituzione, non è mai citato, così come la parola scuola non compare mai nello Statuto del Coni, nonostante sia gli organismi statali che quelli sportivi abbiano più volte promesso di voler colmare la lacuna.

 

Eppure nessuno avrebbe voluto riaprire tutto senza regole, ma secondo una “nuova normalità”, costruita su quelle regole che gli sportivi imparano subito e sono abituati a rispettare. 

 

Ormai, invece, si va verso il paradosso di città che accolgono gli sportivi nelle piazze, nei lungomare, negli spazi di ricucitura urbana, ma li stanno espellendo dalle scuole, agenzie educative per eccellenza, insieme alla famiglia. È illogico e pericoloso, almeno quanto immaginare misure penalizzanti per gli sport dilettantistici quando si aggrava la situazione epidemiologica, perché palestre, scuole, impianti sportivi, sono i luoghi più controllabili in assoluto, quelli nei quali i protocolli si applicano, senza discutere.

 

Ripartire dalla rivoluzione culturale del connubio scuola-sport sembra una banalità, ma in Italia è ancora il primo punto all’ordine del giorno, un mantra che dovrebbe animare i dibattiti culturali sul futuro della scuola, dello sport, della politica, sia a livello locale che nazionale. E il mondo dello sport deve rendersi conto di essere al punto di non ritorno, con la necessità di smettere di accontentarsi delle briciole e ripartire dalle grandi questioni di principio, senza l’inverarsi delle quali non c’è futuro per il sistema sportivo e quello scolastico resterà monco e orfano di una funzione primaria e essenziale in campo educativo. Pietro Mennea diceva che lo sport ha bisogno di progettazione, innovazione, impegno costante. Aveva ragione, ma a questo pantheon manca un pezzo: la concertazione, inevitabile, con le altre centrali educative, la necessità di sedersi intorno a un tavolo e immaginare soluzioni condivise per garantire ai nostri giovani, e alla nostra società, un futuro diverso. Il finale di questa storia possiamo scriverlo solo noi, senza più alcun indugio.

 
Fabio Pagliara
Segretario generale Federazione Italiana Atletica Leggera

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