Il Foglio sportivo

Uno scontro generazionale sulle strade del Giro d'Italia

Gino Cervi

Le fughe di Ben O’Connor, il giudizio dello Stelvio. L’ultima settimana della corsa che ha visto sbocciare nuovi protagonisti (e nuovi panorami)

Un Giro d’Italia si scompone in tappe e, per tradizione, sono 21. Noi si è provato a scomporlo in parole, 21, come le lettere dell’alfabeto italiano. Ne è uscito questo “Dizionario del Giro d’Italia”, scritto da Gino Cervi. Dopo le prime undici (qui la prima puntata e qui la seconda), eccone altre cinque. Le ultime sei ce le teniamo per la fine della corsa, per raccontare come sono andate queste tre settimane. Ma a ruote ferme. L’appuntamento è per lunedì 26 ottobre sul sito del Foglio. Intanto, buon fine Giro.

   


 
Cancano. La diciottesima tappa arrivava per la prima volta, nella storia del Giro, ai laghi di Cancano, nel cuore del Parco Nazionale dello Stelvio. Fin dallo svelamento del tracciato dell’edizione 103 della Corsa rosa era attesa come una delle più affascinanti, sia per le difficoltà altimetriche che avrebbero messo a dura prova la bravura dei protagonisti, sia per la bellezza degli scenari paesaggistici che avrebbero fatto da contorno. La gara non ha deluso le aspettative: la corsa è stata, dopo frazioni di attendismi e tatticismi, combattutissima. La battaglia si è giocata dapprima sui 48 tornanti del versante altoatesino del passo dello Stelvio, poi sulla discesa verso Bormio e infine sull’ascesa, appunto inedita, che da Isolaccia, è salita, ancora una volta per il serpentone di 21 tornanti, alle Torri di Fraele, da oltre sei secoli poste a guardia della Valdidentro, e di qui agli azzurri laghi artificiali di Cancano. Bellezza agonistica e bellezze naturali. Quest’angolo di Valtellina, tra Bormio e Valtidentro, ha da qualche anno invertito la tendenza: i turisti che scelgono l’estate per passare qui le proprie vacanze, in modo attivo, tra ciclismo e trekking, hanno superato quelli che prediligevano le vacanze, e gli sport invernali.

 

Oltranzista. Ben O’Connor, da martedì 20 a giovedì 22 ottobre, per tre tappe consecutive, quella friulana da Udine a San Daniele del Friuli, quella trentina, da Bassano del Grappa a Madonna di Campiglio, e quella che partiva da Pinzolo e arrivava ai Laghi di Cancano, ha passato più chilometri in fuga che in gruppo. L’australiano a San Daniele è arrivato secondo, a Campiglio ha tagliato per primo il traguardo; ma non soddisfatto, anche nel tappone dello Stelvio è andato in fuga ed è stato ripreso solo poco prima di scollinare Cima Coppi. Si può proprio dire che siano stati “i tre giorni di O’Connor”.

 

Ultimo. Nella tappa di giovedì 22 ottobre, il passo del Castrin, altro passaggio inedito nella storia del Giro d’Italia, ha portato la corsa ad attraversare un pezzo di val d’Ultimo. Forse è stato un involontario omaggio alla memoria dell’ultimo per antonomasia, Luigi Malabrocca. Proprio quest’anno cade il centenario dalla nascita della mitica Maglia Nera – ultimo ai Giri d’Italia del 1946 e 1947 – e nella tappa di venerdì 23 ottobre, la Morbegno-Asti, il percorso attraversando la Lomellina, sfiorerà la Barbesina nei pressi di Garlasco, la cascina dove il Luisìn visse dopo il ritiro dalle corse, passando il tempo nella sua peschiera ricca di barbi e trote, carpe e cavedani.

 

Vecchi. Non sappiamo ancora come andrà a finire questa edizione numero 103 del Giro, ma fin d’ora possiamo affermare che si è assistito a un cambio generazionale. Anche se la starting list della corsa, per i noti motivi, non presentava al via l’élite del ciclismo internazionale, il risultato finale evidenzierà come una generazione stia per passare la mano a nuove leve: Nibali, Majka, Pozzovivo, lo stesso Fuglsang hanno dovuto cedere il passo ai nuovi emergenti, dal portoghese Joao Almeida, per quindici giorni in rosa, al britannico Tao Geoghegan Hart, dall’australiano Jai Hindley a Filippo Ganna che ha dimostrato di poter sperare in un futuro da campione anche su strada.

 

Zona mista. La zona mista, o nel gergo anglofilo dei media sportivi, mixed zone è l’area in cui i giornalisti incontrano gli atleti, e al Giro lo spazio in cui, alla partenza o nel dopo corsa, si possono intercettare i ciclisti per un’intervista o semplicemente per qualche battuta. Se un tempo i cosiddetti suiveurs potevano penetrare nel sancta sanctorum degli alberghi delle squadre – anche perché sovente erano gli stessi in cui dormivano e mangiavano i cronisti – o addirittura assistere alle sessioni di massaggio post gara direttamente nelle camere di albergo dei campioni, da tempo ormai per ottenere un contatto diretto con i corridori, non dico i campioni braccati da tutti, ma anche il penultimo dei gregari tocca passare per il filtro dei press office. Quest’anno il Covid 19 ha fatto il resto: e il filtro è diventato un muro. E la zona mista una zona desolata e mesta.
  Gino Cervi

Di più su questi argomenti: