Foto tratta dalla pagina Facebook Meta Nuova Zelanda

In morte di una seconda linea. Il rugby dice addio a Pierluigi Camiscioni

Marco Pastonesi

Camisciò stava al rugby come Bud Spencer (di cui aveva fatto la controfigura in “Noi non siamo angeli”) al cinema, come Frank Sinatra (di cui cantava “My Way” al pianoforte) alla musica

L’ultima partita è durata tre anni. Un avversario duro, tosto, cattivo. Difficile da battere. Lui se l’è giocata fino alla fine. Una decina di giorni fa deve aver capito che ormai era sotto di brutto e non ce l’avrebbe più fatta a rimontare. Allora ha preso il telefono e convocato gli amici. Per una cena. L’ultima cena. Religioso? A suo modo, essendo un rugbista.

 

Pierluigi Camiscioni era come il suo nome e il suo cognome. Il nome composto da due nomi, tanto per contare le ante, inquadrare la stazza, valutare la struttura: spalle, torace, stomaco, ogni abbraccio si traduceva in un principio di stritolamento, ogni stretta, anche della mano, invitava a una radiografia, ogni contatto si ingigantiva in impatto. E il cognome, ovviamente un maggiorativo, che suonava come una parodia, una commedia, una commedia all’italiana, tanto da indurre, almeno lì, a una versione ridotta, Camisciò. Sotto il sole, faceva ombra. Sotto la pioggia, offriva riparo. Nelle foto, invadeva l’obiettivo.

 

Sessantasette anni. Lazio, Roma, Milano, L’Aquila. Qui uno scudetto. Sette presenze in nazionale, quella maggiore (l’azzurro numero 312 della storia), altre presenze fra giovanili e nazionale B. Seconda linea. Una volta il saltatore, adesso l’ascensore: una volta il saltatore ostacolava, impediva, colpiva, lottava e infine saltava per catturare il pallone lanciato nella rimessa laterale, adesso l’ascensore è sollevato dai compagni, inutile dire che lui apparteneva al genere dei rugbysauri.

 


L’Aquila campione d’Italia 1982: Camiscioni è il quinto in piedi


 

Seconda linea, in inglese, si dice “lock”, serratura. Infatti compatta, corazza, blinda il pacchetto di mischia. Se fosse una casa, e la mischia è una casa (una casa-famiglia, una casa-comunità e, finita la partita, una casa-vacanze), la prima linea (due piloni e un tallonatore) sono le fondamenta, la seconda linea (due) il pianterreno, la terza linea (un centro e due ali) il terrazzo e i balconi. Gioco sporco, ruolo oscuro, lavoro nero. Poche occasioni per correre con il pallone in mano. Quelle poche, Camisciò mostrava una coordinazione imprevista. Impugnava il pallone con una sola mano ed esibiva finte, simulava passaggi, scherniva e si divertiva. Poi tornava a puntellare, spingere e ruminare.

 

Camisciò stava alla sua San Benedetto del Tronto come Gustavo Thoeni a Trafoi e Valentino Rossi a Tavullia: un dio. Camisciò stava al rugby come Bud Spencer (di cui aveva fatto la controfigura in “Noi non siamo angeli”) al cinema, come Frank Sinatra (di cui cantava “My Way” al pianoforte) alla musica. E lui era un po’ attore specializzato in film western e un po’ “crooner” virtuoso in canzoni d’amore. Ma il suo amore era il rugby: anni ovali, e poi anni a tavola, a mangiare e bere, a ricordare, a spararne tante e grosse, ma vere, lui che aveva guerreggiato con i romeni, battuto i giapponesi, sfidato gli inglesi, perso per un niente (15-16) con gli australiani in un periodo in cui i Wallabies erano delle Ferrari e noi delle Bianchine. Il suo amore era il rugby: a Paganica, alle porte di L’Aquila, aveva già avuto l’onore della intitolazione della club-house, e non esiste onoreficenza più alta e prestigiosa. Il suo amore era il rugby: anche quando gestiva ristoranti di pesce e stabilimenti al mare. Il suo amore era il rugby: e il rugby, tutto il rugby, campioni e poveri diavoli, fenomeni e poveri cristi, si specchiavano in lui, un’anima da cherubino dentro quel corpo da orco. Il suo amore era il rugby: tant’è che il funerale è stato celebrato al Nelson Mandela, il campo da rugby di San Benedetto del Tronto, il suo campo.

 

Camisciò, quante storie: “Ambasciata della Romania. Scalinata. Un maggiordomo ci guardò, allarmato, forse terrorizzato. Domandò: ‘Ma quanti siete?’. Anacleto Altigieri cantò: ‘Semo tutt’una famija, semo in centoventitrè’. E noi altri, in coro: ‘Paraponzipò paraponzipò’”. Camisciò, quante avventure: “Roma, Flaminio, Algida-Petrarca. Ottantesimo minuto. Presutti, pilone del Petrarca, vicino alla nostra area di meta, prese il pallone, ma era messo male. Gli gridai, in padovano, ‘lassa a mì’. Presutti ci cascò e lasciò il pallone, io me ne impadronii e lo passai ad Anacleto, lui lo passò a me, un dentro-e-fuori che ci portò fuori dai 22, poi a metà campo, quindi nei loro 22, infine in meta, con me. E di quell’azione ho pure il filmato”. Camisciò, quante risate: “Tour in Sud Africa. Sarà stato il viaggio, o l’alimentazione, ma passai cinque giorni senza andare in bagno finché mi scappò urgentissimamente. E non trovai di meglio che sistemarmi fra due macchine e farla. Poi la incartai, la impacchettai e la consegnai, spacciandola per un salamino nostrano, a un dirigente della Rugby Roma che mi aveva chiesto se, dati i miei trascorsi all’Aquila, conoscessi un pastore con prodotti genuini. Il dirigente prese il pacchetto e lo mise in una borsa-valori, per custodirlo con attenzione e gelosia. Finché l’odore, che non era esattamente quello di un salamino nostrano, esalò perfino dalla borsa-valori e cominciò a insospettirlo”.

 

In morte di un seconda linea, la serratura si incanta, la casa-famiglia si apre, Ovalia si svuota. Camisciò, ci vediamo.

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