Mario Corso al tiro contro l'Elfsborg nel dicembre del 1961 (foto LaPresse)

Addio a Mario Corso, la luce all'ombra della Grande Inter

Giovanni Battistuzzi

E' morto a 78 anni il numero 11 dei nerazzurri che vinsero tutto negli anni Sessanta. Con il suo sinistro fece impazzire San Siro. Inventò la punizione a foglia morta? Nel calcio "non ci si inventa niente, al massimo si reinterpretano le cose belle"

Nel calcio è da oltre settant’anni che non ci si inventa niente, “al massimo si reinterpretano le cose belle, quelle fatte bene”. Un buon giocatore lo fa in modo meccanico, un gran giocatore ci mette del suo. Per Mario Corso il gioco del pallone era un continuo richiamo al passato, ma poco sincero, perché la novità fa sempre più scena della reinterpretazione e quindi in pochi sono quelli che “ammettono di aver preso più che spunto”. Anche lui aveva preso spunto. Da Sivori per i calzettoni abbassati, quelli che erano un messaggio ai difensori: li vedete gli stinchi?, fate pure, sempre se riuscite a prenderli. Da Gento per il gioco alla “dove mi metti sto”. E infatti dove lo mettevi stava Mariolino Corso. Fascia sinistra, che da lì il suo mancino andava meglio a crossare; oppure fascia destra, che usava come rampa di lancio per accentrarsi e tirare; in ogni caso meglio se all’ombra, “che i pensieri vengono più facili se non sono scottati dal sole”. Da Didì il modo di calciare le punizioni. “Lo dovevate vedere, una meraviglia: colpo sotto e la palla che andava di qua e di là ma sempre dove voleva lui”. Un colpo secco, ma morbido, delicato, quello di chi ha amore del pallone. “Poi la chiamarono a foglia morta, perché una foglia pareva. Io all’inizio dicevo ‘la calcio alla Didì’. Poi non so chi la chiamò a foglia morta e divenne alla Corso. Meglio per me, mi ricorderanno per qualcosa”. E lo divenne perché la rese sua: mesi e mesi di allenamenti supplementari per renderla naturale.

     

 

Qualche anno fa, tornato a Verona per una di quelle cerimonie di premiazione del passato, Mariolino Corso si definì fortunato. Perché “ho potuto giocare con Suarez, anche se con Luisito ci litigavo spesso. Soprattutto perché dietro di me avevo o Facchetti o Burnich e indipendentemente da dove giocavo Picchi e Guarnieri. Praticamente giocavo libero dall’incubo di sbagliare, ero sicuro che una pezza quei quattro l’avrebbero comunque messa”. E fortunato pure perché “continuano a ricordarsi di me sebbene non abbia mai fatto un Mondiale o un Europeo”. Colpa del carattere, dicevano. Un testardo, poco incline a faticare, commentavano. “Mai avuto grossi problemi con compagni, un po’ di più con l’Helenio (Herrara, nda), ma perché era come me. E non era vero che non correvo: una volta ho fatto uno scatto lungo il campo intero. E poi il mio cognome dice tutto: Corso. Almeno una volta una corsa l’ho fatta”. Correva Corso, il giusto, non più del necessario che Suarez e Bedin lo sapevano fare meglio di lui. E poi “era l’Helenio a dire che bisognava far correre il pallone, mica io. Io obbedivo”. 

 

Mariolino Corso giocava quando i numeri avevano un significato in campo. Lui era l’11, anche se Gianni Brera dopo un Inter-Milan 5-2, stagione 1964/65, si domandò se avesse ancora senso l’undici, oppure forse sarebbe stato meglio un dieci e mezzo, “l’importante è che fosse lontano dal sole, per l’illuminazione bastava il suo sinistro”. 

  

Mariolino Corso l’ultima punizione l’ha battuta con la maglia del Genoa, in Serie B nella stagione 1974/75. Uscì larga di almeno un metro e mezzo. Dopo due rotture della tibia a pochi mesi di distanza lo pensionarono dal calcio. Provò con la panchina, “ma non era per lui, lui era un artista. E poi con quella faccia mica poteva fare l’allenatore”, scherzò negli anni Novanta Giacinto Facchetti. 

  

Il suo occhio sornione e quel suo sorrisetto intelligente e beffardo sono rimasti gli stessi per un’intera vita. Almeno fino a oggi. Mario Corso è morto a Milano a 78 anni

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