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Un calcio all'algoritmo

Maurizio Crippa

Lo strano paese dove chi vince il campionato lo decide il parlamentino del signor Gravina. Meglio la monetina

Quando i mulini erano bianchi come le designazioni arbitrali, una squadra della serie A che mi è abbastanza simpatica vinse uno scudetto per merito di una sorta di classifica avulsa, che non teneva conto del pallottoliere ma di certi codici e articoli. Figurarsi se nell’anno pazzo del virus non mi piacerebbe mettere in bacheca anche uno scudetto estratto a sorte con un algoritmo. Roba da intenditori. L’algoritmo in fondo è come i playoff, soltanto più stupido: in pratica, tra le due formule alchemiche passa la stessa differenza che c’è tra le quirinarie su Rousseau e le primarie del Pd. L’importante, in ogni caso, è che a manovrare l’algoritmo non ci siano dei mentecatti come i tecnici informatici del partito d’elezione del ministro dello Sport, Spadafora Vincenzo: ché in quel caso rischierebbe di vincere un cavallo, un asino, o lo stesso Di Battista. L’altro modo per vincere lo scudetto special Covid edition sono appunto i playoff, ed è tutto già meno romantico: invece di portarla a casa per puro culo, per un imperscrutabile aggiustamento casual-alfanumerico della media inglese, c’è da giocarsi la stagione – che non vuol dire lo scudetto e i festeggiamenti assembrati dei tifosi, ma un bel mucchio di soldoni – in un pugno di partite giocate alla viva il parroco sotto un solleone che nemmeno i Mondiali in Qatar. Poi ci sarebbe il metodo tradizionale per assegnare lo scudetto e comminare le retrocessioni, che sarebbe far terminare il campionato giocando le partite che mancano. Alle squadre della serie A, dirette interessate, è il sistema che piace di più. Se non altro per per incassare i piccioli, seppure in saldo, dei diritti televisivi. Però, strana la vita, è esattamente il sistema che piace di meno a un signore che si chiama Gravina Gabriele e che è il presidente della Federazione italiana giuoco calcio, un caravanserraglio che con il football dei professionisti della serie A c’entra come i nazisti dell’Illinois alle manifestazioni Black lives matter.

 

Il segreto del potere di Gravina è che va d’accordo con tutta la componentistica minore del sistema calcio, quella che rischia meno sghei, e soprattutto con i sapienti del mitico Comitatone tecnico scientifico – quello che per tre mesi ci ha riempiti di protocolli vieppiù dadaisti. Insieme pensano (non diremo sperano, ma se inserite il dato nell’algoritmo vedrete che l’effetto è lo stesso) che al primo malato, al primo sintomatico con trentasette e nove, al primo starnuto a bordo campo o in allenamento, il campionato si ferma un’altra volta. E non potendo giocarselo a briscola, si giocherà a playoff o ad algoritmo. L’altro giorno Gravina ha radunato il consiglio della Federcalcio, in cui i diretti interessati, le squadre di A, sono per statuto in minoranza, e ha tratto il suo algoritmo magico: ha vinto 18 a 3. Perciò al primo colpo di tosse tutti fermi e si gioca secondo le regole sue e di Federcalcio, previa adorazione del totem del Comitatone. E’ tutto così ridicolo che sarebbe quasi meglio tornare alla cara vecchia monetina, come si usava prima che inventassero la cinica lotteria dei calci di rigore. Perché, ora che abbiamo ridacchiato un po’, dovremmo riflettere su questo. Le squadre di A, Lega calcio, hanno molto tentennato prima di decidere di ricominciare. E lo hanno deciso, come in altri paesi, non per far ammalare i loro costosi ragazzoni, ma perché hanno aziende da mandare avanti, un giro d’affari di un paio di miliardi, un pubblico, dei clienti e degli sponsor. Si chiama calcio professionistico. Perché mai a fare le regole per giocare non debbano essere loro, in modo autonomo, come accade ad esempio in Gran Bretagna dove sono i club a decidere in sostanziale autonomia calendari, diritti e quant’altro? Perché mai in Italia a decidere chi andrà in serie B o in Champions deve essere il parlamentino di tutti gli altri? L’Italia è un paese strano, un paese alla monetina.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"