Quel volo che unisce Muhammad Alì e Gilles Villeneuve

Fabio Tavelli

Il pugile americano e il pilota canadese sono nati a un giorno di distanza. In comune non hanno quasi niente. Eppure su di un aereo...

Così lontani, ma nemmeno poi tanto (tra Saint-Jean-sur-Richelieu, Quebéc, e Lousville, Kentucky, ci sono 1.500 chilometri, poco più che tra Milano e Palermo), così vicini (17 gennaio 1942 l'americano, 18 gennaio 1950 il canadese). Gilles Villeneuve e Muhammad Alì in comune non hanno quasi niente. Il destino li ha avvicinati di un solo piccolo giorno sul calendario, pur a 8 anni di distanza. Uno ha vinto tutto, l’altro “solo” sei gare. Uno è sopravvissuto a se stesso andando oltre il suo tempo imbruttendosi al tramonto del suo cammino, l’altro se n’è andato verso la leggenda lasciando al figlio il piacere dell’iride.

 

Perché insieme? Per un volo.

 

Alì, ma al tempo era ancora Cassius, ricevette dal suo allenatore la notizia della convocazione per le Olimpiadi di Roma 1960. “Bene! Quando parte il treno per Roma?”, chiese il ragazzino senza prendere in considerazione l’ipotesi di consentire ad altri di portarlo in cielo. Chiarite meglio le sue nozioni sulla geografia, Cassius pretese di viaggiare con addosso un paracadute, sicuro che l’uccello d’acciaio si sarebbe inabissato nelle acque atlantiche. E siccome a 18 anni non aveva ancora baciato una ragazza chiese di poter viaggiare accanto a una donna. Prima del, per lui, inevitabile schianto le avrebbe strappato un bacio appassionato per morire con il cuore in pace. Gilles invece i voli li adorava. Naturalmente non da passeggero. Quando incontrò per la prima volta Enzo Ferrari ottenne la sua benedizione a Fiorano nonostante una serie inenarrabile di testa-coda e uscite di pista appena messo piede nella vettura che Lauda aveva abbandonato da Campione del Mondo a due gare dalla fine (1977). Sicuri che il Vecchio lo avrebbe rispedito in Canada a pedate i meccanici di Maranello ricevettero invece ordine perentorio di sistemare il sedile per le misure (minute) del piccoletto e di spedire l’accessorio in Canada, dove la domenica successiva si sarebbe svolto il GP. “Lo porto io”, disse Gilles che proprio in Canada sarebbe tornato (casa sua). Si presentò al gate dell’aeroporto abbracciando il sedile e alle legittime rimostranze degli impiegati dell’Alitalia (“prego, ce lo dia e lo mettiamo nella stiva con le valigie”) oppose un secco rifiuto. “Questo viaggia con me, se me lo rompete non posso guidare la Ferrari domenica nel Gran Premio”, disse senza prendere in considerazione una risposta negativa. Febbrili consultazioni, immancabili telefonate a Maranello (Gilles non era esattamente popolare al tempo e il lei-non-sa-chi-sono-io non gli era venuto in mente) e alla fine il via libera.

 

Viaggiò abbracciato al suo sedile, così come Cassius fece con il suo paracadute. 

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