Ali Daei, il bomber semisconosciuto che neppure CR7 riesce a prendere

Fu protagonista della vittoria ai Mondiali del 1998 contro gli Usa. Ha giocato in Germania ma resta un idolo locale. Nessuno ha segnato come lui in Nazionale

Fulvio Paglialunga

C’è un iraniano che è meglio di Cristiano Ronaldo. Almeno se prendiamo i numeri e uno dei pochi record che non sono di proprietà del più grande onnivoro della storia del calcio. Lui si chiama Ali Daei, di professione ha fatto l’attaccante, si è ritirato nel 2007 e ora allena. Sarebbe potuto essere un giocatore di valore mondiale, aveva pensato a un certo punto Franz Beckenbauer affidandosi al fiuto personale per i talenti, ma non lo è diventato mai. Un eroe in patria, piuttosto. Di quelli che vengono sventolati come bandiere, ogni tanto fanno parlare di sé anche come elementi troppo ingombranti, ma poi restano nella teca dei migliori, gente di cui vantarti. Ali Daei ha girato per molti club, ma ha scelto la Nazionale come vetrina massima: con la maglia dell’Iran è diventato forse un attaccante irraggiungibile. Sempre per via dei numeri: 109 gol certificati dall’austera Iffhs, la federazione internazionale di storia e statistica del calcio, tutti con la Nazionale, come nessuno nella storia delle Nazionali. Nemmeno Cristiano Ronaldo, appunto: fermo, mettiamola così, a 88 gol, sopra una leggenda come Puskas (84), ma sempre sotto un tal Ali Daei, che suona come sconosciuto eppure dovremmo imparare a conoscere.

 

Ali Daei è un concentrato di gol, ego, coincidenze e potere. Ad esempio è nato il 21 marzo (del 1969), che per noi è il primo giorno di primavera e piace a quelli che attendono le belle giornate, e nella cultura persiana rappresenta il Nawruz, il capodanno, e l’Iran è il paese dove le celebrazioni sono nate. Una coincidenza che idealmente lo rende, o quantomeno lo fa sentire, un punto di partenza, uno spartiacque tra quello che c’era prima di lui e quello che ci sarà con lui. Non la grandezza mondiale di una squadra, l’Iran, che può essere chiamato anche Team Melli e uno pensa che voglia dire qualcosa di profondo e invece significa, in anglo-persiano, squadra nazionale. Ma la grandezza di Ali Daei in Iran, quella sì: uno capace, una volta ritiratosi, di costruire a proprie spese lo stadio della sua città, Ardabil, intitolandolo a se stesso. Uno con cui non conveniva avere cattivi rapporti: fuori dall’Iran riuscì ad andare nel 1996, per giocare nei qatarioti dell’Al Sadd per poi avere il coraggio di arrivare in Europa soltanto nel 1997, a ventotto anni, proprio mentre l’allenatore della Nazionale era Mayeli Kohan, che come filosofia aveva sempre escluso dalla Nazionale quanti andavano a giocare all’estero. Fece così anche con Daeli, sfidando l’opinione pubblica in nome della coerenza, sfidando la Federazione con la promessa che contro il Qatar sarebbe andata bene lo stesso. Invece l’Iran perse, ma Kohan fu esonerato per aver lasciato un campione a casa, e disse – poi – che era stato proprio Daei a tramare contro di lui con la Federazione.

 

Quando giocava era riconoscibilissimo: mostrava le sue origini azere nei lineamenti del viso, aveva i capelli gonfi e all’indietro e i baffi, nulla che potesse confondere. Incarnava anche fisicamente un popolo che cercava riconoscibilità, ed era bene pure che avvenisse attraverso il calcio. Al pallone e a Daei l’Iran ha legato uno dei ricordi più dolci. Nel Mondiale del 1998, in Francia, la Nazionale giocò nella fase a gironi anche contro gli Usa. Gli Stati Uniti erano stati definiti da Khomeini – che si era insediato con il suo governo teocratico dieci anni dopo la nascita di Daei – il Grande Satana, tra i due stati c’erano decenni di ostilità e tensioni da scontare. Era molto più di una partita e forse per l’Iran era l’unico obiettivo di quel Mondiale: Ali, l’uomo che voleva i gol solo per sé, capì l’importanza di quella partita al punto da rinunciare a segnare ed essere protagonista lo stesso nell’azione più simbolica della partita, quella in cui Mahdavikia va di corsa verso la porta degli Usa lanciato alla perfezione, fugge in uno spazio aperto per giustiziare per la seconda volta (è il 2-0) il paese nemico, sigillando così una vittoria (2-1) storica. Dov’è Daei in questo momento? È quello che vede per primo il compagno pronto a scattare, si libera di un avversario con una sorta di sombrero a sé stesso. È quello che trova un modo spettacolare per fotografare la sua tenacia: il lancio, quello decisivo più del gol, è suo.

 

Incastrato nei racconti delle sue prodezze in Nazionale, Daei fa quasi passare in secondo piano la sua carriera nei club. Che comincia tardi, perché ha già diciannove anni quando, con la guerra tra Iran e Iraq ormai alle spalle, mette piede nella squadra della sua città, ma si sviluppa presto, passa dal Qatar, ma non dal Giappone, dove non riesce ad andare per via dell’obbligo del servizio militare. La vera speranza di mettersi tra i migliori del mondo, lui che era un attaccante di potenza ma anche capace di giocate di qualità, fu sbarcando in Germania: fu notato nella Coppa d’Asia del 1996 e poi andò all’Arminia Bielefeld, nella Bundesliga. Fu in questo momento che, si diceva, Beckenbauer vide in lui un giocatore di livello mondiale e lo portò al Bayern Monaco, dove però ebbe un ruolo da comprimario e, contemporaneamente, trovò il modo per entrare lo stesso nella storia, visto che mettendo piede in campo a partita in corso contro il Manchester United, il 30 settembre 1998, diventò il primo calciatore asiatico a giocare in Champions League. Ma, ovviamente, non bastò per confermare le sensazioni del Kaiser e andò, poi, all’Herta Berlino dove occupò un ruolo più di primo piano, mise insieme qualche buona annata prima di tornare in Iran e riprendere a vincere lì. Nel frattempo, tra un club e un altro, in un paese che cambiava velocemente e che aveva voluto fortemente un piano straordinario di scolarizzazione per i suoi cittadini, riuscì anche a laurearsi, in modo brillante, all’Università Tecnologica di Sharif in Ingegneria dei materiali.

 

Partito tardi, tornato milionario, Daei si è tolto ogni soddisfazione: quando nel 2003 ha superato Puskas (Ronaldo era ancora parecchio indietro) per i gol segnati in Nazionale (in cui, va detto, ha esordito già a 24 anni, cosa che fa crescere il valore del record) è entrato nella leggenda, ma non sempre ha vissuto tutto con leggerezza, perché alcune cose non gli sono state perdonate. Non la voglia di essere sempre protagonista, ad esempio, anche nel Mondiale del 2006 quando aveva già 37 anni e non lasciò spazio ai più giovani, attirando polemiche. E qualche antipatia era nata anche per la sua ricchezza, ostentata sempre nel 2003 con un matrimonio da favola e con la sua passione per le macchine di lusso, che invece ha cercato di non banalizzare nella sua seconda vita da imprenditore, ma anche con attività da filantropo, costruendo scuole e ospedali. Tutto vissuto al massimo, ma è logico che sia così, quando tredici anni dopo il tuo ritiro puoi andare in giro a dire che sei irraggiungibile anche da Cristiano Ronaldo. Che ti sono bastate 149 partite per segnare 109 gol e vediamo se qualcuno ci riesce. Se accadrà, nessun problema, è stato bello: “Nel momento in cui fissi un record – ha detto – sai che qualcuno prima o poi lo batterà”. In realtà per ora l’unico è proprio lui, Ronaldo: “Alla fine ce la farà, ma gli costerà tempo e fatica”. Basta questo, all’uomo che chiamano il Grande Re: aver fatto faticare un fenomeno.

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