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Perché l'addio risentito del Capitano causerà seri danni alla Roma 

Stefano Menichini

Totti e quella romanità che anche a Boston avrebbero dovuto studiare bene

A tutto c’è un limite, anche agli addii, ai dolori, ai pianti. Quando il 28 maggio 2017 Francesco Totti lasciò il calcio giocato (“mi costrinsero”, dice oggi) fu un evento di portata mondiale, intriso di emozione, affetto, nostalgia: un passaggio d’epoca vissuto collettivamente nel quale almeno tre generazioni si ritrovarono unite negli stessi sentimenti e nell’attaccamento a una persona amata. Oggi – particolare rivelatore – lo stesso Totti avrebbe voluto fare il bis di nuovo dentro lo stadio, con le tribune assiepate di gente (“il mio popolo”) ad ascoltare stavolta il suo atto di denuncia e di rottura con la dirigenza della Roma. Per fortuna non gliel’hanno concesso. Perché l’effetto sarebbe stato ancora più stridente e dissonante di quanto non sia comunque stato quello della conferenza stampa monstre nella sede del Coni, offerta per la prima volta a un tesserato per esprimere tutto il proprio risentimento verso altri tesserati (anche se, paradossalmente, l’unico vero bersaglio di Totti è un signore che formalmente non ha alcun legame col calcio italiano, risiede e lavora a Londra e da lì fa il bello e soprattutto il cattivo tempo sui destini della prima squadra della Capitale).

     

Dire finalmente tutto il male possibile, apertamente e senza diplomazie, contro Franco Baldini: in definitiva, in questo è consistito l’addio di Totti alla società nella quale ha giocato, anzi vissuto, per trent’anni. E francamente, per quanto la arcinota antipatia fra i due sia da molti anni materia ghiotta del retroscena giornalistico pallonaro, non s’è trattato di un evento particolarmente epico. Certo non all’altezza della lunga storia d’amore – invidiata un po’ in tutto il mondo – fra Totti, la Roma e i romanisti. Una resa dei conti che si sarebbe potuta risolvere in un’intervista e che invece, così annunciata e amplificata (tre network tv nazionali collegati in diretta, più chissà quanti altri locali) lascia solo amarezza in chi l’ha seguita, un sacco di problemi terribili per la società (già malconcia di suo) oggetto di tanto amore trasfigurato in rabbia, e per il diretto interessato una conseguenza che forse non aveva calcolato, o forse invece sì: la “detottizzazione” della Roma, a sentir lui obiettivo fin dall’inizio della gestione americo-baldiniana, è da oggi compiuta. Definitiva. Perché perfino se la società passasse di mano appare oggi difficile pensare a ciò a cui evidentemente pensa lui, cioè a un ritorno di Totti a Trigoria, reincoronato re per volontà di qualche emiro.

    

Lasciando in sospeso il discorso sul futuro di Totti, che darà ancora da discutere e da scrivere per anni, ciò che rimane molto concreta è la devastazione dentro una delle società più amate d’Italia, quella che rischia di pagare il prezzo più salato per il processo di modernizzazione che altre – la Juventus innanzitutto – stanno cavalcando con discreta agilità.

    

Dando per scontato come si schieri la stragrande maggioranza dei romanisti nello scontro fra l’amatissimo Capitano e l’odiatissimo presidente, non è la prima volta e non sarà l’ultima, e non solo nel calcio, che una tifoseria si trova di fronte al problema di come sostenere la squadra andando contro la società. Quasi tutte le risposte hanno risvolti tafazziani, perché a ogni indebolimento dei padroni della ditta corrisponderà inevitabilmente l’insuccesso sportivo. Ma è una contraddizione dalla quale normalmente si esce. In Italia è cosa di tutti i giorni anche (per citare solo i casi recenti) a Napoli, a Genova, a Bologna, a Empoli, in decine di piazze minori, per la Lazio. Del resto, solo per stare al campionato che ha fatto da battistrada nel percorso di intensa commercializzazione del calcio, rivolte contro i presidenti della Premier League si sono scatenate a Manchester, a Newcastle, a Cardiff, a Hull, a Liverpool (sia sponda Everton che Reds), arrivando fino a scissioni (il FC United of Manchester): non si può dire che almeno alcune di queste squadre non siano sopravvissute alle rispettive crisi, anzi molto più che sopravvissute. Il tema – grazie all’importanza globale della Premier – è talmente sentito da aver prodotto una vera e propria letteratura scientifica sulle implicazioni sociali della “modernizzazione” calcistica. Beh, dalla consultazione dei saggi universitari si esce con la stessa conclusione che masticheresti col panino con la mortadella in Curva Sud: per i tifosi, scontrarsi con la propria società è una sofferenza (tra le tante) con la quale alla lunga riescono a convivere; per una società, scontrarsi coi propri tifosi è un grave errore manageriale. Il motivo, banale, è che il trade off fra ciò che perdi (in passione, calore, attaccamento, fedeltà, immagine di forza collettiva) e ciò che guadagni (nuovi tifosi più consumatori che fan, merchandising, diritti televisivi) sarà sempre negativo: tutti i fattori passionali e sentimentali promuovono e incoraggiano l’ampliamento della platea e l’espansione del business. Senza cuore, niente soldi.

      

In questo senso la Roma degli ultimissimi anni è davvero un caso di scuola, e le responsabilità del suo presidente evidenti. Per la parte della sua avventura romana che riguarda la costruzione del nuovo stadio, Pallotta non è stato fortunato e merita ammirazione per la “tigna”: qui ha trovato di tutto fra sindaci, commissari, governi, ribaltoni, almeno una dozzina di elezioni con esiti sempre opposti, partiti e antipartiti, costruttori corruttori e amministratori corrotti, sovrintendenze gelose, quotidiani nemici e magistrati d’assalto. Un concentrato d’ogni immaginabile male italiano. Lui, oltre a un miliardo dai fondi d’investimento americani, aveva da giocarsi due asset forti, connessi fra loro: il sostegno di qualche centinaia di migliaia di tifosi e il superpotere di Totti di sollevarli a comando, tipo il Re della Notte di “Game of Thrones”. Il superpotere è stato attivato solo una volta, nel febbraio 2017, quando bastarono quarantott’ore di hashtag per convertire alla causa la sindaca riluttante. Lasciamo stare che quello è stato anche l’inizio della fine, visto che in quel momento insieme alla Raggi salivano sul carro del nuovo progetto Tor di Valle anche Lanzalone e la variopinta truppa del processo Parnasi. Il punto è che appena quattro mesi dopo si consumava all’Olimpico il lancinante addio di Totti al calcio, sicché da quel momento hanno cominciato a spegnersi tutti i superpoteri disponibili e il più recente appello pallottiano alla piazza sul tema stadio (ai primi del maggio scorso) ha trovato i tifosi già più pronti a linciare il presidente, che non a soccorrerlo. E doveva ancora scoppiare il caso De Rossi.

  

Può darsi che avere a che fare con due forti personalità come il Capitano e il suo successore non sia stato facile, per la società. Ma la totale incapacità di gestirne la fine carriera causerà seri danni, e la colpa non può essere addossata a loro due. La “romanità” è un concetto vago, comprensibilmente antipatico per molti, spesso un alibi, una scusa, una millanteria, certo un’entità faticosa e fastidiosa. Eppure anche a Boston e a Londra penserebbero che se ti chiami Roma, metti la lupa nel simbolo, ti vesti dei colori storici e ti circondi di gladiatori e legionari, l’idea di “liberarti dei romani” non è il massimo della strategia di management.

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