Marco Rossi (foto LaPresse)

Come si dice destino in ungherese. Parla Marco Rossi

Giorgio Burreddu

In Italia gli chiedevano soldi per allenare, ora vuole l’Europeo da ct della Nazionale magiara

"Vincere in un club non mi ha cambiato. La percezione di me stesso è uguale, è la stessa di quando non avevo vinto. Sono una persona moderatamente equilibrata, so che le cose dipendono dai risultati. E dalla fortuna, che è un aspetto di cui molti non parlano. La fortuna decide della tua vita nel momento in cui nasci, in una famiglia di un certo tipo, in posto senza violenza o senza povertà. Uno deve sbattersi, fare il meglio che può. Ma conta anche la fortuna, il destino che uno ha”. Di se stesso Marco Rossi, 54 anni, ct dell’Ungheria, ha una visione chiara come un cielo d’estate. I temporali li ha attraversati a testa alta e adesso è lì a giocarsi l’accesso a Euro 2020. La prima sfida contro la Slovacchia è finita con una sconfitta per 2-0, domenica 24 marzo se la vedrà contro la Croazia vicecampione del mondo.

 

“Non sono più un ragazzino. Essere arrivato in Nazionale è un punto d’arrivo. Però il mio sogno è lasciare un’impronta, un segno, e l’unico modo è fare qualcosa per il calcio ungherese. Qualificarci all’Europeo vorrebbe dire scrivere una pagina importante per questa Nazionale. Vorrei rimanere ct qualche anno”. Quando le turbolenze erano troppo forti c’era sempre sua moglie Mariella a tenergli la mano. Lei c’era quando Marco era ancora un calciatore, “con una carriera dignitosa ma non eccezionale”: aveva giocato in A col Brescia e con la Samp, e aveva deciso di provare delle esperienze lontano da qui. Fu uno dei primi calciatori ad andare all’estero. “Sono sempre stato aperto al nuovo, al voler conoscere, a viaggiare, a lavorare in posti diversi. Ti apre la mente. Accresci la tua cultura, conosci modi di pensare differenti”.

 

Mariella c’era anche quando Marco andò a giocare in Messico, e lì incontrò il vate Bielsa, un po’ “loco” sì ma anche pieno di magnificenza quando si trattava di dispensare calcio. “Teneva i giocatori in campo tre, quattro ore di fila a provare tattica, era ossessionato dalla tattica, studiava tutto il giorno, guardava e riguardava vhs, l’ufficio era pieno di libri. Mi ha segnato. Come mi ha segnato Lucescu, l’altro mio maestro. Allenare una Nazionale non è facile, a me piace stare sul campo. I giocatori spesso devi motivarli cercando anche di togliere loro di dosso la pressione. E mai come oggi è fondamentale avere all’interno una figura professionale che curi l’aspetto della psicologia. Non puoi ragionare come venticinque cervelli diversi”.

 

Mariella c’era anche quando Marco provava a sgomitare sulle panchine di Serie C. “Ricordo bene quando mi esonerarono dalla Cavese, era il 2011. Sono stato fermo un anno e quattro mesi. Mi chiamavano persone per suggerirmi panchine, ma dovevo portare sponsor per potere allenare. E’ stato un periodo difficile, erano tre anni che non guadagnavo un euro, che non portavo a casa i soldi. Non sono stato in depressione, ma in uno stato psicologico molto vicino. So cosa significa non avere un lavoro, non sentirsi utili per la propria famiglia. Stavo per lasciare tutto, mio fratello ha uno studio di commercialisti: avrei fatto quello”. Mariella c’era anche quando insieme andarono a Budapest a trovare il loro amico Pippo. “L’avevo conosciuto quando giocavo in Germania, aveva un ristorante lì. Poi ne ha aperto uno a Budapest, su una delle vie principali, un posto bellissimo. Un giorno passo a trovarlo. A forza di insistere lui e mia moglie mi convincono a chiamare il direttore sportivo dell’Honvéd. Io, figurati, non sono il tipo che telefona ai presidenti e ai direttori. Quella è stata l’unica volta”. Due anni fa con l’Honvéd ha vinto il campionato, guarda il destino. Rossi è stato premiato come miglior tecnico d’Ungheria e la Figc gli ha riconosciuto una panchina speciale per i suoi successi all’estero. “Con gli ungheresi c’è stato feeling da subito. In Italia non avevo mai avuto la sensazione di essere apprezzato. Da noi i talenti ci sono, bisogna solo gestirli diversamente. Non dobbiamo pensare di essere per forza i primi in tutto. E credo anche che non sia una vergogna copiare, prendere un po’ dagli altri”. Oggi Marco e sua moglie passano parecchi mesi in Ungheria, mentre i loro figli Simone e Gaia vanno a trovarli ogni tanto. Marco ha un appartamento in un complesso residenziale del centro, vicino al Danubio, dieci minuti a piedi dal cuore di Budapest. Ogni tanto, quando si prende una pausa dai video delle partite, Marco fa su e giù per quella strada. E ripensa a tutto quello che gli è capitato, a tutte le sue fortune. “Mamma doveva accudire tre figli. Papà Vittorio lavorava per la Ceat, l’azienda di pneumatici della Pirelli. Stava a Settimo Torinese, e io me lo ricordo tutto sporco come uno spazzacamino, gli si vedevano solo gli occhi bianchi e i calli alle mani. La mattina ci alzavamo e lui era già uscito. Non ci ha fatto mancare nulla, ho avuto un’infanzia felice. Se n’è andato nel 2014. Però è stato nonno Gino ad avviarmi al calcio. Mi accompagnava agli allenamenti, mi stava vicino. E tutte le volte mi parlava di Puskás, della grande Ungheria, mi raccontava del 6-3 che i magiari avevano rifilato agli inglesi nel tempio di Wembley. Lui era del 1913, aveva visto il Grande Torino e la più grande squadra d’Ungheria, l’Honvéd. Quando sono diventato allenatore ho ripensato a mio nonno, e alla forza che ha il destino”.

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