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La nostalgia del biliardo, passato dal bar al salotto

Nicola Imberti

La Nazionale italiana è campione del mondo di “5 birilli”, ma la passione per questo sport non è più quella degli anni Ottanta-Novanta, quando i giocatori erano addirittura star del cinema

Deve essere accaduto quando hanno vietato il fumo nei locali pubblici, sterilizzandoli dai nostri vizi. Perché il fumo crea atmosfera e il biliardo è anzitutto atmosfera. Locali bui, luci al neon a illuminare il panno verde quasi si trattasse di un proscenio, silenzi interminabili rotti solo dallo schiocco delle biglie, sguardi sospesi. E tesi. “Una luce che luna non è. In un buio che notte non è”, canta Angelo Branduardi nel suo Il giocatore di biliardo. Una notte in cui ci si può perdere, ritrovare, “rovinare” e persino “diventar pazzi”.

 

 

Così, perlomeno, la vedeva Vincent Van Gogh quando alla fine del 1800, parlando del suo Caffè di notte, il tavolo da biliardo al centro del locale con sopra due stecche abbandonate, diceva: “Ho cercato di esprimere l’idea che il caffè è un posto dove ci si può rovinare, diventar pazzi, commettere dei crimini. Inoltre ho cercato di esprimere la potenza tenebrosa quasi di un mattatoio, con dei contrasti tra il rosa tenero e il rosso sangue e feccia di vino, tra il verdino Luigi XV e il Veronese, con i verdi gialli e i blu intensi, tutto ciò in un’atmosfera di una fornace di zolfo pallido”.

 

 

Vincent Van Gogh, Il Caffè di notte

Che ne è stato di tutto quello zolfo? Viene da chiederselo oggi che dalla Svizzera, in quella Lugano dove la sterilizzazione delle storture della vita si è trasformata in una pratica ospedaliera, arriva la notizia che la Nazionale italiana di biliardo è diventata campione del mondo nella specialità “5 birilli”. Che ne è stato del biliardo narrato, giocato, amato a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta? Tutto sembra essere volato via. Come il fumo.

 

C’erano tremila persone sotto il tendone da circo, domenica pomeriggio. E quando Cifalà ha mirato l’ultimo tiro, e con quattro punti di pallino s’è portato via il Mondiale, in tremila sono saltati in piedi con un boato terrificante”. Giugno 1987. La cronaca è quella di Fabrizio Ravelli per Repubblica. Per chi volesse il video di quella giornata è facilmente recuperabile su una delle nostre memorie digitali, YouTube. Ci sono il tifo, il boato finale, gli abbracci, le lacrime di Carlo Cifalà, la delusione dell’avversario, l’argentino Nestor Gomez, ma soprattuto c’è quella che Ravelli descrive come “una corrida intorno al panno verde, una cerimonia mistica e affascinante”.

 

  

Cosa la rendeva così affascinante? Forse il cinema. Nel 1961 Paul Newman aveva portato sul grande schermo il suo Spaccone. Nel 1986 riprende la stecca in mano e, diretto da Martin Scorsese, recita al fianco di Tom Cruise ne Il colore dei soldi. In quegli stessi anni, 1983 e 1985, Francesco Nuti, enfant prodige del cinema italiano, realizza Io, Chiara e lo Scuro e Casablanca, Casablanca (nel 1998 girerà anche Il signor Quindicipalle). Il biliardo sembra una chiave narrativa perfetta per raccontare l’Italia del boom economico.

 

 

Trandafilo, “voce” del biliardo in Rai: “Nel 1987 parlai con Longhi e decidemmo di portarlo in tv”

Nel 1987 la Rai decide di portarlo in televisione. Franco Trandafilo, per 20 anni voce del biliardo (oltre alle telecronache ha tenuto per anni, tutti i martedì, una rubrica), racconta al Foglio quella svolta: “Ne parlai con Albino Longhi che all’epoca era il direttore del Tg1 e decidemmo di iniziare a trasmettere le gare. Fino ad allora il biliardo veniva visto come uno sport praticato da chi era più abile per portare via soldi a chi non sapeva giocare”. In ogni paese c’era un bar, una sala con biliardo. Tutti passavano, tutti giocavano. Davanti alle biglie e ai birilli non contava la classe sociale, ma l’abilità. Che, con una scommessa, poteva diventare occasione di guadagno e riscatto. Il bar come luogo di aggregazione di umanità diverse, di affari e malaffari. E di certo non è un caso che Franco Giuseppucci, Er Fornaretto della Banda della Magliana (il Libanese per chi preferisce la storia romanzata) sia stato ucciso nel settembre del 1980, proprio dopo essere uscito da un bar con biliardo a piazza San Cosimato a Trastevere.

Per molti è solo un gioco, un passatempo. “Ma chi ha avuto modo di vederlo dal vivo o in televisione sa che si tratta di uno sport – prosegue Trandafilo – Anzitutto abbiamo varie specialità: i 5 birilli, la Goriziana, la Carambola, lo snooker, solo per citarne alcune. Chi lo pratica ha bisogno di continui allenamenti. Deve essere in forma fisicamente ma anche e soprattutto psicologicamente. Servono manualità e concentrazione. È come il tennis, non puoi permetterti momenti di distrazione”.

 

Negli anni Trandafilo ha conosciuto “i più grandi”. I nomi, che scandisce con sacralità, sono quelli di Cifalà, Gustavo Zito, Gomez, Giampiero Rosanna. E ancora Vitale Nocerino, Mimmo Acanfora, Marcello Lotti. “Con i loro sforzi e i risultati sportivi, hanno dato lustro a questo sport e hanno fatto nascere e crescere la passione in tantissimi giovani”. E pensare che per alcuni tutto era iniziato come un modo, semplice, per arrotondare e avere qualche soldo in più da destinare alle spese famigliari. Lotti, dai più conosciuto come “Lo Scuro”, era un postino di Peretola. Così bravo che, quando il biliardo divenne una professione con allenamenti quotidiani, pagava l’altro postino per fargli consegnare la propria posta e potersi dedicare al tavolo verde. Forse anche questo, unito alla comune origine toscana, conquistò Nuti che lo volle accanto a sé in due film. “Tutti vorrebbero giocare con lo Scuro – dice Novello Novelli in una scena di Io, Chiara e lo Scuro – ma lo sai quanti anni sono che gioca da solo? Dieci anni. Perché non ha più avversari. Prima venivano da tutte le parti per sfidarlo, e per perdere. Solo per poter dire di aver giocato con lui”.

Il nome di Lotti, oltre che al cinema e ai titoli conquistati (nove volte campione italiano), è legato all’ottavina reale. La biglia colpita tocca otto sponde prima di battere su quella dell’avversario e spingerla verso i birilli. Un tiro che lascia estasiati, quasi si trattasse di una magia. Eppure si tratta di geometria e fisica. Non a caso in alcuni licei italiani, da qualche anno, hanno iniziato a insegnare geometria attraverso il biliardo. Una bella metamorfosi per uno sport nato “dannato”. E chissà che non siano le scuole, alla fine, il luogo dove il biliardo può sperare di vivere e sopravvivere.

 

 

Massimiliano Maggio è il titolare della Mbm biliardi. Negli anni Ottanta suo padre, Mariano, era ospite su Canale 5 e sulla Rai, passava da Buona Domenica con Maurizio Costanzo a Va’ Pensiero con Andrea Barbato, ovunque spiegava le regole del biliardo cercando di svelarne i segreti. “In quel periodo – dice al Foglio Massimiliano – c’erano in Italia 22 aziende che producevano tavoli da biliardo. Per averne uno bisognava aspettare fino a sette mesi. Il merito di tanto interesse era dell’allora presidente della Federazione italiana amatori biliardo sport (Fiabs), Rinaldo Rossetti, che è stato un vero innovatore e con il suo lavoro ha trasformato il biliardo in uno sport a carattere nazionale. Poi, a metà degli anni Novanta, c’è stato il tracollo. Le sale biliardo hanno iniziato a chiudere e noi ci siamo ritrovati per mesi interi a non sapere cosa fare. Abbiamo dovuto ripensare tutto. E abbiamo iniziato a lavorare sulla veste estetica del biliardo trasformandolo in un oggetto di design di culto. Lo spirito è lo stesso. Il biliardo, anche dentro casa, è un oggetto piacevole che avvicina le persone e crea aggregazione”.

 

  

Insomma, dal bar si è passati ai salotti. Forse anche perché ormai i bar non rappresentano più un luogo di aggregazione e di incontro. “Oggi – prosegue – di quelle 22 aziende ne sono sopravvissute 5. Ma non si pensi che il nostro unico obiettivo sia stato quello di concentrarsi sui miglioramenti estetici. Per noi prima di tutto viene la tecnologia sportiva, il tavolo deve permettere di praticare lo sport del biliardo al massimo livello”. L’impressione, però, è che ormai ci si trovi davanti a un’attività di nicchia, destinata a pochi e gloriosi appassionati. “Il nuovo presidente della Fibis, Andrea Mancino, sta facendo un buon lavoro sull’attività sportiva. Il risultato di Lugano ne è una prova. Nel 2024, tra l’altro, il biliardo potrebbe tornare alle Olimpiadi. Speriamo che serva a dare ulteriore impulso ai giovani perché si avvicinino a questa disciplina. Certo, anche oggi la passione non manca. Nella nostra sala biliardo a Roma ad esempio, ci sono tanti ragazzi cinesi che giocano. E anche in Corea c’è molto fervore. Noi stessi stiamo lavorando su un nuovo gioco che, grazie alla tecnologia, potrà consentire a persone distanti di sfidarsi tra di loro”.

 

Negli anni d’oro le aziende produttrici di biliardi erano 22 e i tempi di attesa erano di 7 mesi. Oggi sono solo cinque

Uno sforzo ulteriore si potrebbe fare, magari, sulla comunicazione. O meglio sulla narrazione. Lo stesso Maggio ammette che per far (ri)nascere una passione bisogna veder “giocare qualcuno che sa cosa raccontare sul tavolo verde”. Allora l’attenzione viene rapita, cala il silenzio e non è difficile assistere a scene, come quelle di alcuni film, in cui un numero nutrito di persone si raduna attorno al tavolo della sfida. Immobile. “Raccontare il biliardo – dice Trandafilo – significa raccontare uomini, mezzi e regole. Bisogna anzitutto intuire ciò che il giocatore vorrebbe fare. E non è facile”. Poi il tiro “fiorisce” da sé, con la biglia che scorre, armonica, sbatte sulle sponde, raggiunge l’obiettivo.

 

  

Ma in quel gesto, apparentemente semplice, tutto deve essere ben fatto, studiato, perfetto nella sua realizzazione: l’intensità della forza, la scelta degli angoli, la precisione del colpo. “Dovevo farglielo vedere a quei cialtroni, a quei delinquenti com’è una partita quando è giocata, quando è bella davvero – dice lo “spaccone” Paul Newman – È qualcosa di grande quando sei bravo e lo sai che sei bravo. Senti gli schiocchi delle biglie. Non serve guardarle. Tanto lo sai. Fai dei gran tiri che non aveva mai fatto nessuno. Giochi quella partita come non l’aveva giocata nessuno”.

La bellezza. Alla fine, probabilmente, è questo l’unico segreto del biliardo. Magari la fantasia. Anche se, come dice Trandafilo, “la fantasia è l’elemento primario del bello”. E allora il tiro più inatteso diventa il più bello. Che lascia di stucco. Che strappa l’applauso e il “boato terrificante”. Lo dice anche Branduardi: “Per ogni geometria ci vuole fantasia”.

 

Questo articolo è stato pubblicato sul Foglio Sportivo in edicola
sabato 19 e domenica 20 gennaio 2019