E' morto Gigi Radice, l'allenatore che riportò il Torino allo scudetto

Aveva 83 anni ed era malato da tempo. Cresciuto nel Milan era diventato prima giocatore e poi allenatore grazie all'insegnamento di Nereo Rocco. Portò in Italia il calcio olandese

Giovanni Battistuzzi

Nereo Rocco diceva di lui che aveva "l'intelligenza giusta per poter leggere il campo come fosse un libro". Diceva anche che aveva "pure la curiosità e il carattere giusto per poter insegnare il calcio". Faceva ancora il calciatore, terzino sinistro, quando il Paron disse questo. Lo stava allenando a Padova e, quando dal Veneto raggiunse la Milano rossonera lo volle con sé. Un ritorno a casa. Luigi Radice era cresciuto nel Milan, per i rossoneri aveva giocato per qualche anno con poca fortuna, poi aveva raggiunto Trieste e i biancoscudati in prestito. "Non avessi trovato Rocco probabilmente non sarei ritornato al Milan, probabilmente non avrei fatto l'allenatore". E sarebbe stato un peccato. Perché Gigi Radice, che è morto oggi all'età di 83 anni, è stato per buona parte della sua carriera uno dei migliori allenatori che il nostro campionato ha avuto tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta.

 

Si sedette su di una panchina appena trentenne, vagò per la provincia profonda del calcio italiano per un po', perché "è giusto così, serve gavetta per capire come si deve schierare una squadra". Monza, Treviso, ancora Monza, Cesena prima di approdare in serie A a Firenze. Un anno, molte buone idee in una stagione appena discreta. Il primo tentativo di importare in Italia il metodo olandese, quel calcio a tutto campo, a tutto pressing che rivoluzionò il mondo del pallone. Finì male, con un divorzio consensuale. Radice passò per Cagliari una mezza stagione: "Il tempo per mettermi alla prova e riflettere". Il tempo per maturare ciò che non andava del suo modo di intendere il calcio. A causa anche di un Gigi Riva perennemente infortunato si rinnovò, cambiò identità e filosofia, capì che le individualità servono solamente se sono inserite in un collettivo che si sacrifica in modo totale per una causa.

 

La sua causa divenne il Torino.

 

Al Toro arrivò in sordina, divenne grande, amato, un simbolo. Quello di uno scudetto che sembrava non poter più arrivare dopo Superga. Arrivò nella stagione 1975/1976 la prima alla guida dei granata.

 

"Avevamo animo, forza e mentalità vincente. Andavamo in campo per imporre il nostro gioco, contro tutti. Ci siamo quasi sempre riusciti, spinti anche dalla forza e dall’immensa eccitazione della città. L’hanno detto e scritto più volte: abbiamo fatto resuscitare il Grande Torino. Si sentiva, si avvertiva, in città, un’atmosfera cupa, pesante. Dicevano che Torino dopo la terribile sciagura di Superga aveva vissuto giorni di inguaribile rimpianto. Vero, ma mai di rassegnazione. Mai. Ed era questa voglia, questo dinamismo a darci la carica. Il Torino voleva diventare grande, era scritto. Lo è diventato, superando un’avversaria, la Juve di Parola, forte, organizzata", disse.

 

Era quello il Toro del "tremendismo" granata, quello che davanti schierava i gemelli del gol Pulici e Graziani, che sulla fascia recitava il poeta Claudio Sala, che in porta osservava i tuffi di Castellini, e aveva a centrocampo i muscoli e il cervello di Pecci e Zaccarelli. Era il Toro che "più bello non si può", almeno per Mario Soldati, perché "raccoglieva in undici uomini un animo unico, un senso di rivolta al fato e che giocava come fosse una danza tribale, indomita e sensuale".

 

Dopo quella stagione perfetta ne seguirono due che lo furono quasi altrettanto. Il Torino finì prima secondo, poi terzo.

 

Fu esonerato nel febbraio del 1980. Ritornò nell'estate del 1984, dopo aver allenato Bologna, Milan, Bari e Inter, perché un amore è duro da dimenticare. Fu ancora un gran bel Toro. Furono ancora anni felici. Non arrivò lo scudetto, fu al massimo un quarto di finale in Coppa Uefa.

 

Al suo addio nel dicembre del 1988 disse che "lascio Torino, ma il Toro non lo lascerò mai". La tifoseria ha fatto lo stesso, non l'ha mai dimenticato.

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