Carlo Tavecchio, Foto LaPresse

Un calcio a Tavecchio

Salvatore Merlo

Veltroni dice di no. Nel futuro della Figc ci sono Maldini, Costacurta e un giurista che riscriva le regole

Roma. “E’ più facile che faccia il commissario Maigret al cinema”, ci dice Walter Veltroni, celiando, quando gli chiediamo se è pronto a fare lui il commissario della Federcalcio, insomma a salvare la patria, adesso, dopo le dimissioni pirotecniche di Carlo Tavecchio, dopo l’eliminazione dai Mondiali, in quell’impasto imprendibile di politica, spettacolo, interessi, denari e sentimenti che da sempre in Italia si chiama pallone. “Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre”, diceva Winston Churchill. E ieri mattina Tavecchio, il gaffeur astuto, l’arruffato di potere, ha mollato la presidenza della Figc dopo più di tre anni, e lo ha fatto con una conferenza stampa spettacolare, un vitalissimo miscuglio di millanteria e furbizia, sgrammaticature e parole straniere, “chapeau lo dico io”, “pago per Ventura che non sono stato io a scegliere”. E ora, con queste sue dimissioni, comincia tutto un gioco complicatissimo, composto di mediazioni, pressioni, incontri, telefonate, trattative: commissariare il calcio italiano o lasciare che la federazione elegga un nuovo presidente? “Bisogna capire come procedere”, dicono a Palazzo Chigi, nelle stanze di Luca Lotti, il ministro dello Sport, che da molti giorni, assieme al presidente del Coni, Giovanni Malagò, stava tessendo tutta quella serie di rapporti e di relazioni, con i calciatori, i tecnici, gli arbitri, i rappresentanti delle Leghe minori, che avrebbe dovuto portare alla rimozione di Tavecchio, alle dimissioni del Consiglio federale e dunque al commissariamento del calcio italiano. Ma per affidarlo a chi? A un politico? Veltroni non è disponibile.

 

E allora? “A un campione”, si sono detti Lotti e Malagò, “un ex calciatore, una figura specchiata, al di sopra delle fazioni, insomma uno come Maldini o come Costacurta”. Ma le dimissioni di Tavecchio, che Malagò aveva previsto, ieri hanno accelerato i tempi, forse complicato la faccenda. Il commissariamento è un’operazione che trova enormi resistenze. E ancora non ci sono le condizioni di legge per commissariare, ammettono anche al Coni. Tavecchio aveva intuito, capito, sentito, saputo, attraverso i fili nascosti che nel piccolo palazzo portano a ogni orecchio le parole che volano nell’aria, la notizia: “Il governo e il Coni ti stanno preparando la festa”. E infatti, a modo suo, con il suo codice allusivo e sgrammaticato, abituato a trattare ogni cosa come fosse una guerra per bande, l’ex presidente della Figc s’era abbandonato a parlare di “pressioni indicibili”. Pressioni lecite e assolutamente “dicibili”, in realtà. Semplicemente politica, cioè il tentativo di reagire a un disastro, dopo l’eliminazione della Nazionale italiana dai Mondiali di Russia 2018.

 

E allora ecco le telefonate frenetiche, dal Coni ai rappresentanti degli arbitri, a quelli della Lega pro, e a quelli dei calciatori. E poi dai calciatori agli allenatori, con il ministro Lotti che chiama Luciano Spalletti, l’allenatore dell’Inter, e Spalletti che si fa portavoce di una posizione che trova molte simpatie, almeno tra i tecnici delle squadre di serie A: Di Francesco, Montella, Allegri… Tutti in garbato pressing, una parola del calcio che evidentemente torna utile anche in politica e nei rapporti umani, su Renzo Ulivieri, presidente dell’Associazione nazionale allenatori: “Dovresti dimetterti, bisogna far dimettere la maggioranza del consiglio federale, bisogna cambiare tutto e favorire un commissariamento della Figc”. Ma Ulivieri è contrario, come Luca Perdomi, l’altro rappresentante degli allenatori nell’organo di autogoverno del calcio. E infatti ieri, malgrado le mezze promesse, non si è dimesso nessuno, escluso Tavecchio. Eppure le dimissioni del consiglio federale, della maggioranza del consiglio federale, erano un passaggio fondamentale in questo tentato coup del governo e del Coni all’interno della Federcalcio. Lo stabilisce lo statuto della Figc, negli articoli che si occupano della struttura di governo della federazione: per commissariare è necessaria la “comprovata non funzionalità” dell’organismo federale. Si dovrebbe dimettere la maggioranza dei consiglieri. E solo allora si aprirebbe con chiarezza, anche dal punto di vista legale e amministrativo, la strada del commissariamento che auspicano il governo e il Coni.

 

Ma le dimissioni non ci sono state ieri, e non ci saranno. Alle spinte di Malagò e di Lotti corrispondono le controspinte interne alla Federazione, i rapporti di potere, gli scambi, in un mondo che è legittimamente molto geloso delle sue prerogative. Gabriele Gravina, il rappresentante della Lega pro, aveva assicurato che ieri si sarebbe dimesso, come pure il rappresentante del calcio a cinque. Ma in poche ore, nello spazio di una mattina, hanno entrambi cambiato idea. E infatti basta una telefonata, una parola, una promessa, una rassicurazione, e le inclinazioni, le determinazioni ballano, si spostano da un fronte all’altro della contesa.

  

“L’Italia ha sessantaquattro federazioni sportive”, raccontano al Coni, “nessuna ha nel suo statuto la possibilità di essere commissariata. Tutti resistono”. Ma il Coni commissaria comunque, trova il modo. Sempre. Il calcio è stato commissariato undici volte in centoventi anni. La prima volta nel 1925. Adesso Malagò è determinato, ha chiesto un parere legale, ed entro quarantotto ore un pool di avvocati amministrativisti troverà anche stavolta il sistema di commissariare la Figc. Domani alle 16 e 30 si riunisce la giunta del Coni. E si decide. Ma chi sarà il commissario? Un ex campione, sì, un uomo che offra l’immagine della pulizia e della sportività. Ma andranno riscritte le regole, dicono, l’occasione dev’essere “una rifondazione del calcio italiano”. E per questo “ci vorrà un ticket”, spiegano tutti. Un campione dello sport e un giurista. Guido Rossi fu commissario della Federcalcio con Demetrio Albertini e Gigi Riva. Lo schema è ancora quello.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.