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La rivincita di Stefano Pirazzi: meno 3 al Giro100

Giovanni Battistuzzi

Al Giro d'Italia del 2014, sul traguardo di Vittorio Veneto, il corridore laziale conquistò la sua prima e unica vittoria nella Corsa rosa. Fu una liberazione e un ombrello

Vittorio Veneto è unione. Almeno dal 1866, quella dei paesi di Ceneda e Serravalle sotto uno stesso stemma cittadino, in onore a Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia. Vittorio Veneto è battaglia. Almeno nel 1918, l’ultima, quella definitiva contro gli austriaci, quella della Vittoria. Vittorio Veneto è fuga, sempre nel 1918, sempre degli austriaci, quella della cacciata. Vittorio Veneto è ancora fuga, ma a pedali, quella del 2014, quella del Giro d’Italia, quella dell’ombrello di Stefano Pirazzi.

 

Era il 28 maggio e si partiva da Sarnonico, Val di Non, provincia di Trento, 208 chilometri di strade collinari, mosse, con poca pianura e tanti su e giù. Tappa buona per fughe, per altimetria e soprattutto per necessità: alla conclusione di quell’edizione mancavano quattro tappe e tre frazioni di grandi montagne, le energie erano quelle che erano, i velocisti rimasti in gruppo pochi, quindi libero spazio ai coraggiosi. Quel giorno lungo la Valsugana si raggrupparono avanti a tutti ventisei avanguardisti che pedalarono di buon accordo e buona lena sino a quando, verso Conegliano, divenne evidente che tra loro sarebbe uscito il vincitore di giornata. Troppo ampio il margine sul gruppo – circa un quarto d’ora – per poter pensare di essere raggiunti. A Ca’ del Poggio, un chilometro e trecento metri di strada velenosa e verticale tra filari di Glera, lo sconquasso. Le pendenze sparpagliarono gli uomini di testa ed esaltarono il belga Thomas De Gendt, che prese la testa solitaria, inseguito a vista da Stefano Pirazzi, a sensazione da Oscar Gatto, Matteo Montaguti e Jay McCarthy. Venti chilometri al traguardo, una ventina di secondi sul grosso degli attaccanti, fanno scegliere a De Gendt e Pirazzi di aspettare gli altri tre fuoriusciti e avanzare compatti.

I metri che mancano al traguardo diminuivno e con loro anche l’armonia tra i cinque. C’era chi tirava per pochi secondi, chi faceva il furbo e saltava i cambi, chi proprio non li faceva. I due belgi discutevano, l’australiano si nascondeva pronto a colpire, gli italiani si guardavano. Nessuno si fidava di nessuno, la corsa diventava un gioco di posizione, di trincea. I cinque avanti aspettavano il primo assalto di baionetta, mentre il gruppetto dietro si avvicinava, pregustava un ricongiungimento, la beffa.

 

Mancavano milletrecento metri e fu lì che Pirazzi scattò, ed fu una fucilata, e fu sorpresa, e fu assolo. Scattò a tutta e alle sue spalle i quattro si guardarono, si interrogarono, si limitarono a spingere con gli occhi qualcuno a chiudere. Quando ci provò De Gendt era ormai troppo tardi, del laziale rimasero a loro le spalle, alle telecamere fisse il suo volto contratto e incredulo, le mani in alto che poi diventarono ombrello, gesto di rivalsa e rivolta, diretto un po’ a tutti quelli che non credevano in lui, ed erano tanti almeno a suo dire, e a un passato fatto di sfortuna e generosità impiegata in fughe andate male.

Tutti pazzi per Pirazzi. I suoi tifosi espongono la frase come vessillo. Tutti pazzi per Pirazzi e non serviva quel giorno per esserlo, perché il ciociaro era uno di quei corridori che rendono onore al ciclismo, che fanno di avventura e grinta una questione primaria, inscindibile dalla bicicletta. E basta al pubblico per volergli bene e agli opinionisti per bacchettarlo, sottolineando condotte scriteriate, mancanza di tattica e quant’altro. Tutte riflessioni sacrosante per inseguire la vittoria, poco utili per la ricerca del divertimento. Parole che a volte è meglio dimenticare, gettare via come fossero un sasso, lo stesso che scagliò Pirazzi a Vittorio con quel gesto dopo il traguardo.

 

Vincitore: Nairo Quintana in 88 ore 14 minuti 32 secondi;

secondo classificato: Rigoberto Uran a 2 minuti 58 secondi; terzo classificato: Fabio Aru a 4 minuti 4 secondi;

chilometri percorsi: 3.445.

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