Vincenzo Nibali durante l'ultimo Tour de France (foto LaPresse)

Dàgli allo Squalo: l'impossibilità di essere Vincenzo Nibali (anche a Rio 2016)

Giovanni Battistuzzi
Il corridore messinese è stato l'unico italiano nella storia recente a vincere grandi corse a tappe e grandi classiche. E' uno dei sei grandi della storia ad aver conquistato Giro, Tour e Vuelta. Ma questo non basta: ogni sua vittoria è stata minimizzata, fatta passare come casuale. Ora c'è l'Olimpiade e il gioco si ripropone. I motivi di un amore mai nato.

La Vista Chinesa è una collinetta invidiabile. Da un lato domina la Praia de Sao Conrado, spiaggia bianca, surfisti, belle donne, villoni e campi da golf; dall'altro domina la Praia de Ipanema, dove la spiaggia è meno bianca, i campi da golf sono sostituiti dai locali dove si balla la bossa nova e le ville da un filare di hotel più o meno di lusso e di un paio di favelas in lontananza. Questa parte di Rio de Janeiro è solitamente un piacere, è solitamente vacanza, o quanto meno festa. Sempre tranne sabato, perché sabato per una volta le spiagge non saranno che contorno di altro. Perché lì, tra San Conrado e Ipanema, sui 9 chilometri di ascesa che da quota zero portano ai 530 metri della cima di Vista Chinesa ci si gioca la medaglia d'oro olimpica di ciclismo. I corridori il panorama e l’oceano se lo godranno l’indomani. Non ci sarà tempo in gara. E’ la prova più dura che un’Olimpiade abbia mai presentato in programma, è stato detto, scritto e proclamato. E almeno a vedere l’altimetria lo sembra davvero. In tanti sognano l’oro, in molti lo possono raggiungere: uomini da grandi giri, uomini da classiche dure, gente che va forte quando la strada sale e quando scende. Perché se la salita è tanta e ripida, la discesa lo è altrettanto. Serve sapere guidare la bici e sapere farlo bene. In tanti sognano l’oro, perché sono pur sempre i Giochi olimpici, una vetrina mondiale, un lustro mica da poco. Nessuno però se ne farà un cruccio se da Rio tornerà a mani vuote. Nel ciclismo l’Olimpiade è corsa se non secondaria quantomeno di non primissimo piano. Sotto la bandiera con i cinque cerchi non si fa la storia di questo sport. Sarà che è aperta ai professionisti solo dal 1996 e in questa disciplina la tradizione vale quanto gli avvenimenti recenti; sarà che è corsa che si presenta ogni quattro anni e il mondo delle bici ha bisogno di annualità; sarà che è evento inserito tra troppi altri e il popolo del pedale ha bisogno di quell’esclusività che ha sempre contraddistinto il suo trascorso.

 



 

I Giochi olimpici sono più che altro occasione scenica, momento di ribalta. E’ un modo per superare la nicchia nella quale il ciclismo si è cacciato e raggiungere così il palcoscenico principale. Serve a cambiare l’immaginario dello sportivo distratto, non a modificare il giudizio dell’appassionato. Così per tutti, così soprattutto per uno: Vincenzo Nibali.

 

Lo Squalo correrà su di un percorso adatto alle sue caratteristiche, correrà per vincere, da osservato speciale. Correrà contro tutti come ha sempre ha fatto, contro gli avversari sulla strada, contro gli scettici, che sono paradossalmente di più. Questo è il destino di Nibali: essere la normalità, in un mondo che cerca l’alterità, l’anomalia.

 

Il messinese in questi anni ha vinto molto: due volte il Giro d’Italia, un Tour de France, una Vuelta di Spagna, un Giro di Lombardia. E’ stato il sesto corridore nella storia a vincere tutti e tre le grandi corse a tappe. Prima di lui ci riuscirono solamente Jacques Anquetil, Felice Gimondi, Eddy Merckx, Bernard Hinault e Alberto Contador. E’ stato l’unico italiano nell’ultimo lustro a cogliere risultati di rilievo, Enrico Gasparotto a parte, in quelle corse cosiddette monumento, ossia quelle corse che rappresentano la storia di questo sport. In pratica è riuscito da solo – solamente Fabio Aru è riuscito a vincere la Vuelta – a non far sprofondare il ciclismo italiano. Ma ciò non è bastato. Ogni suo successo è stato accompagnato con una sequela di “ma”, “vabbé”, “però”. Quando nel 2010 vinse la Vuelta in molti commentarono la grande prova dello Squalo sottolineando la mancanza di grandi avversari; quando nel 2013 vinse il primo Giro la critica si soffermò sulla soppressione del tappone alpino, quello che avrebbe dovuto unire per la prima volta nella storia i due grandi giganti lombardi, il Passo Gavia e il Passo dello Stelvio; quando nel 2014 conquistò il Tour ad essere evidenziato furono i ritiri di Contador e Froome; a maggio, quando bissò il successo nella corsa rosa, il commento fu: “Sì vabbé, ma Kruijswijk – la maglia Rosa che sino alla tappa della Cima Coppi stava dominando il Giro – è caduto”. Poi è arrivata la Grand Boucle e a Nibali è stato rinfacciato di tutto: dall’essersi staccato alla prima tappa di montagna, “Nibali ha disonorato il Tour” è stato detto durante la telecronaca, al non aver vinto una tappa.

 



 

Charly Gaul dopo aver perso la maglia Rosa nel Giro del 1957 sul Bondone, la stessa salita che l'anno precedenti lo fece entrare nella leggenda di questo sport sotto una tormenta di neve, per una crisi venne considerato da molti già un corridore sul viale del tramonto, incapace di reggere le tre settimane di corsa. Aveva 25 anni all'epoca. Dichiarò: "Questo sport è volubile peggio di una donna. Sei amato se vinci, sei finito se perdi. La gente ti vorrà bene solamente se inizi a divorare qualsiasi cosa". Lo scalatore lussemburghese dopo quella mezza debacle, fu quarto alla fine, vinse prima un Tour de France e poi conquistò un altro Giro. Ma non fu mai amato davvero. Non almeno quanto Pou Pou, che di nome fa Raymond, di cognome Poulidor e di mestiere perdente di lusso. Pou Pou era corridore eccezionale, aveva resistenza e determinazione, concepiva il ciclismo come sport di antica fatica, lontano dai flash e dalla mondanità che attraevano il suo primo grande rivale, Jacques Anquetil. Era uno che parlava e inveiva, sempre con grande correttezza, che scattava e ci provava, ma che non vinceva mai. In Francia a 40 anni dal suo ritiro è ancora un mito. Perché il rapporto che lega i corridori e il loro pubblico non è qualcosa legato ai risultati, o almeno non solo. C'è altro, è un legame che può essere regionalista, a volte nazionale, quasi sempre epidermico. E' alchemico. Soprattutto in Italia legato all'alterità.

 


Raymond Poulidor


 

Alfredo Binda era idolatrato perché rappresentava la forza, Fausto Coppi il progresso, contrapposto alla tradizione e alla fede di Gino Bartali. I due spaccarono l'Italia, rappresentavano due mondi contrapposti, sebbene fossero molto più simili di quanto le cronache riportavano. Erano legati da una profonda fede, da un grande rispetto. Anni dopo la divisione si ripropose con Felice Gimondi e Gianni Motta: uno era ardore, l'altro eleganza. Divenne muro contro muro con Francesco Moser e Beppe Saronni: uno era il futuro, l'altro la cattiveria. Negli anni Novanta arrivò la pazzia di Claudio Chiappucci, l'estro di Mario Cipollini, infine la sfortuna e la redenzione di Marco Pantani. Sono stati i grandi amori ciclistici italiani. Tutti legati da una particolarità, tutti a loro modo speciali.

 



 

Nibali speciale non lo è. O almeno lo è per risultati, unico italiano ad aver vinto qualcosa – anzi molto – in questi anni di crisi del nostro movimento, ma non per capacità comunicative. Lo Squalo è uno che parla poco, che preferisce dimostrare quanto vale sulle strade, che non fa proclami e quando vince cerca subito di tornare alla normalità. Non vive di copertine e di fari scenici, si eclissa preferendo la quiete e l'anonimato. E questo è un errore imperdonabile per un mondo che ormai cerca solo i personaggi, che vuole le paillettes, le storie da leggere e da ricamare.

 

Nibali ha sempre dimostrato la sua classe. Lo vorrà fare anche a Rio 2016. Il problema è che in ogni caso, comunque andrà a finire, il risultato ottenuto sarà del tutto ininfluente. Se vince sarà risultato dovuto, sarà un "vabbé il percorso era fatto per lui"; se perde sarà l'evidenza di quanto è sempre stato sopravvalutato, sarà un "ecco, ha disonorato il Tour per vincere l'Olimpiade e non c'è riuscito". I soliti "ma", "vabbé", "però". Il solito chiacchiericcio contro l'uomo che da solo è riuscito a non far sprofondare il ciclismo italiano nella periferia degradata del ciclismo moderno.

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