Luca Toni (foto LaPresse)

Luca Toni, il Verona e il cucchiaio per dirsi addio

Leo Lombardi
L'attaccante dell'Hellas saluta il Bentegodi, il suo ultimo stadio di casa, regalando la vittoria agli scaligeri contro la Juventus con un rigore. Dischetto che invece a Carpi è risultato fatale per due volte a Jerry Mbakogu: dopo aver condotto gli emiliani in A l'anno scorso, ora i suoi errori potrebbero essere decisivi per la retrocessione.

Un cucchiaio per dirsi (dirci) addio. Luca Toni ha scelto questa via, spettacolare e per lui insolita, per congedarsi dal calcio. Lo ha fatto in una partita che valeva soltanto per le statistiche, con il Verona già retrocesso e la Juventus già campione d'Italia. E, forse per questo, ha potuto calciare libero da ogni pensiero preoccupante, per il gusto di metterla in fondo al sacco – dietro alle spalle di Neto – e di dare un dispiacere alla Juve di Gigi Buffon, il portiere con cui ha condiviso l'avventura che ha segnato una vita. Perché i due facevano parte della squadra che, giusto dieci anni fa, si laureava campione del mondo in maniera totalmente inaspettata, in una Germania dove nessuno dava credito all'Italia, per di più colta alla vigilia del torneo dalla bufera Calciopoli. Fu un successo costruito con la forza del carattere e con la determinazione del gruppo. Prendete proprio Toni. Era arrivato all'appuntamento preceduto dai 31 gol realizzati con la Fiorentina, miglior marcatore non solo d'Italia ma anche d'Europa. Al Mondiale ne segnò appena due, per di più in una sola partita (il quarto di finale contro l'Ucraina). Uno potrebbe dire: un fallimento. Invece no, perché il suo modo di giocare era fondamentale in una squadra che faceva della compattezza difensiva la base su cui costruire i successi. Toni era uno che, innanzitutto, sapeva mettersi a disposizione del gruppo, pronto a creare pericoli nelle aree altrui come a presidiare la propria. Quell'Italia chiuse il torneo incassandone appena due, di gol (per di più un'autorete e un rigore). E il merito è stato anche di Toni, come capitato in ogni squadra – e sono state tantissime – in cui si è affacciato.

 

C'era lui nel Palermo tornato in serie A e capace di trovare subito una qualificazione in Europa League. C'era lui nella Fiorentina portata da Cesare Prandelli in Champions League. C'era lui nel Bayern campione di Germania e vincitore della coppa nazionale. Il massimo traguardo per Toni, poi confinato tra le riserve da un infortunio personale e dalla spocchia di Louis Van Gaal. Sembrava l'inizio del declino, tra l'avanzare degli anni e dei guai fisici. Al Genoa lo definivano uno scaldabagno (“Il voto a Toni? Tre, come i suoi gol”, l'elegante commento del presidente Enrico Preziosi), alla Juventus aveva fatto poco o nulla, in Dubai lo avevano accolto come un pensionato d'oro e alla Fiorentina come il tentativo di risvegliare un amore perduto. Ci sono voluti Verona e il Verona per ritrovare il feeling di un tempo, merito di una curva emendabile per molti motivi tranne per la passione con cui sostiene la squadra. Un sentimento che ha risvegliato Toni alle soglie dei 40 anni, segnando nel bene e nel male il destino gialloblù: nel bene con i 42 gol nelle prime due stagioni, nel male con l'annata che sta finendo e in cui le sue reti sono mancate tremendamente.

 

Come sono mancate al Carpi quelle di Jerry Mbakogu. Un anno fa gli emiliani stupivano tutti conquistando nella maniera più inaspettata la prima promozione in serie A della propria storia. E il nigeriano era stato il leader sul campo, quindici gol su cui costruire un'impresa. Quest'anno? Uno solo, fino alla penultima giornata di campionato, per di più su rigore. Il motivo per cui è sembrato naturale sceglierlo per il tentativo dal dischetto contro la Lazio, una partita fondamentale per evitare la retrocessione. Poteva essere la rete del vantaggio, si è rivelato un tentativo velleitario facilmente annullato da Marchetti. E poco prima dell'intervallo, con gli ospiti scappati sul 2-0, un altro rigore e conseguente possibilità di riaprire la gara. Senonché il prescelto è stato ancora Mbakogu, con un tentativo di trasformazione ancor più esilarante del precedente, per la serenità di Marchetti. Un evento raro ma non impossibile nel calcio. Non potrà mai raggiungere il lirismo di Paolo Rossi quando racconta il doppio fallimento di Evaristo Beccalossi in coppa Uefa in un'Inter di oltre trent'anni fa, ma di certo entrerà nella memoria collettiva del Carpi, quando si racconterà il finale della prima stagione di una serie A compromessa da un nigeriano fuori fase al momento di presentarsi al calcio di rigore. Ah, se avesse tentato un cucchiaio…

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