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Meglio l'inflazione sotto controllo o i tassi d'interesse bassi? Test a risposta multipla

Lorenzo Borga

Il governo Meloni lancia il dibattito, criticando la Bce dopo l’annuncio di un rialzo dei tassi a luglio. Ma al di là delle schermaglie politiche (e dei conflitti d'interesse) rimane un interrogativo rilevante

Meglio un’alta inflazione con bassi tassi di interesse o prezzi sotto controllo con tassi più cari? Una scelta decisamente poco invitante. In Italia negli ultimi giorni abbiamo assistito a questo dibattito lanciato in particolare da Giorgia Meloni e altri esponenti del governo. L’esecutivo è infatti tornato a criticare la Banca Centrale Europea dopo l’annuncio – in realtà già scontato – di un rialzo dei tassi di interesse a luglio e la mancata smentita di un nuovo rincaro a settembre, su cui il dibattito a Francoforte appare ancora aperto. Per Meloni la Bce dovrebbe considerare il rischio che il restringimento in atto della politica monetaria sia in realtà più dannoso dell’inflazione stessa.

  

Al di là delle schermaglie politiche e degli errori grossolani – no, l’inflazione europea non è più dovuta all’aumento dei prezzi energetici ormai da diversi mesi – questo rimane un interrogativo di fondamentale rilevanza per comprendere gli effetti che l’inflazione da una parte e il rincaro dei prestiti dall’altra hanno sulle nostre vite e sulla disuguaglianza.

  

Il rialzo dei tassi di interesse colpisce in teoria tutta la popolazione, anche se con diverse intensità. Secondo una ricerca commissionata dal Parlamento europeo, le fasce più povere della popolazione subiscono l’aumento del costo del denaro attraverso una riduzione delle opportunità di lavoro offerte dalle imprese, il ceto medio per lo più a causa del rincaro dei mutui mentre le famiglie più abbienti possono veder calare il proprio patrimonio investito in strumenti finanziari. Concentriamoci sui secondi, dal momento che l’attuale crescita degli occupati e la contemporanea ripresa di titoli azionari e obbligazionari mette per ora al riparo gli altri. In Italia sono circa 7 milioni le famiglie che hanno un debito da pagare, circa una su quattro. Di queste, tre milioni e mezzo devono far fronte a un mutuo, nella maggior parte dei casi a tasso fisso – e dunque senza alcun rincaro, anzi il valore nominale del debito è abbattuto dall’inflazione – mentre circa 700mila pagano un tasso variabile. Per loro, a seconda del caso, le rate mensili possono essere perfino raddoppiate per via del rialzo dei tassi della Bce. Questa è certamente la parte di popolazione – circa il 5 per cento delle famiglie italiane – che sta subendo gli effetti collaterali peggiori della lotta all’inflazione. Non è detto tuttavia che sia tra le più povere in assoluto: di norma l’acquisto di una casa è correlato con un maggior reddito rispetto a chi vive in affitto, almeno negli Usa. L’effetto dei tassi coinvolge anche le imprese, i cui costi di finanziamento sono triplicati dall’inizio dell’anno scorso con un effetto sugli investimenti che si potrebbe notare nei prossimi mesi. A dire il vero tuttavia almeno in Italia le condizioni non appaiono ancora drammatiche: la crescita del Pil è stata recentemente rivista al rialzo e gli investimenti sono cresciuti nel primo trimestre dell’anno dello 0,8 per cento rispetto ai tre mesi precedenti. Lo stesso governo italiano, nell’ultimo Documento di economia e finanza, scrive che le imprese potrebbero risentire solo parzialmente dell’aumento dei tassi di interesse grazie “ai recenti elevati margini di profitto”.

  

L’inflazione è invece un nemico più subdolo, perché colpisce senza farsi notare. È una “tassa occulta” come la definisce la premier. L’impatto sui conti delle famiglie italiane è difficile da stimare, dipende dalle proprie abitudini di consumo, dagli aiuti pubblici ricevuti e dalla capacità di prendere contromisure. È tuttavia probabile che l’inflazione subita dai più poveri sia più alta di quella dei più abbienti, che spendono una fetta più piccola del proprio reddito in cibo ed energia, i prodotti rincarati maggiormente. La differenza di inflazione percepita tra ricchi e poveri è arrivata negli ultimi anni a toccare i due punti percentuali, circa un terzo del tasso ufficiale. Per via del rialzo dei prezzi, in tasca alle famiglie italiane – secondo i calcoli dell’Upb e della Corte dei Conti – rimangono circa 150 euro in meno al mese, al netto degli aiuti pubblici. Una media che varia di famiglia in famiglia e che tiene già in considerazione i quasi 40 miliardi di euro stanziati dal governo nel 2022.

  

Difficile pesare sulla stessa bilancia i due fenomeni, ma una cosa è certa: da un’alta inflazione e bassi tassi di interesse a guadagnarci sarebbero soprattutto i grandi debitori, Stato italiano in testa. La Corte dei Conti nel suo giudizio di parificazione del rendiconto dello Stato ha messo nero su bianco le cifre: le entrate previste per il bilancio pubblico nel 2022 sono state superate dalla realtà di oltre 90 miliardi di euro, il 16 per cento. In buona parte un aumento di tasse e contributi dovuto proprio all’inflazione superiore al previsto. Ecco perché le critiche del governo Meloni nascondono, neanche troppo velatamente, un conflitto di interessi.

 

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