
Cattivi scienziati
Dalla maturità alla bibliometria. Così il numero sostituisce il senso
Il rifiuto dell'esame orale da parte di alcuni maturandi riflette un sistema scolastico sempre più dominato da logiche numeriche. Come nella ricerca accademica, il rischio è che il raggiungimento dell’indicatore sostituisca il vero obiettivo: la formazione
Dopo il caso del liceale padovano, una ragazza di Belluno ha fatto la stessa scelta: sapendo che, con il meccanismo attualmente in vigore, avrebbe certamente conseguito la maturità, ha rifiutato di sostenere la prova orale.
Già l’anno scorso tre studentesse venete avevano operato la stessa scelta; e già l’anno scorso, come quest’estate, si sono spesi fiumi di inchiostro da entrambe le parti – chi ha sostenuto che si trattasse solo di comodo opportunismo e voglia di riflettori, da una parte, e chi invece ha elogiato la ribellione e l’atto di protesta contro un sistema di valutazione scolastica che sarebbe ormai privo di senso. Non intendo aggiungermi alle discussioni sulla morale, sulla preparazione, sui fallimenti, sul mondo mediatico e via filosofando: mi interessa molto di più mettere a parte il lettore di una considerazione che, in forza della mia frequentazione dell’accademia, a me salta agli occhi in maniera abbastanza lampante.
Il punto è stato mille volte ripetuto, a proposito della valutazione bibliometrica della ricerca, cioè della valutazione attraverso indici numerici legati al numero di pubblicazioni scientifiche di professori, ricercatori, scienziati ed istituzioni, al fine di ottenere finanziamenti ed avanzamenti di carriera. Mille e mille volte si è evidenziato come un sistema che trasformi l’ottimizzazione di una metrica in un risultato, invece di utilizzare in maniera corretta le metriche, finisce per favorire l’emersione di comportamenti opportunisti che hanno l’unico scopo di raggiungere quei valori metrici che servono agli obiettivi individuali, vuoi di carriera, vuoi di finanziamento, per cui la corsa alla pubblicazione scientifica utile a raggiungere indici bibliometrici alti si è ampiamente sostituita allo sforzo di fare buona ricerca e di scrivere articoli scientifici che servano e significhino qualcosa di importante.
Ora, nella scuola mi pare sia avvenuta più o meno la stessa cosa, più o meno in contemporanea e più o meno dettata dalla stessa ossessione di indicizzazione e valutazione numerica che, nata in discipline come quelle economiche, ha finito con il plasmare ampi ambiti della nostra società. All’ottimizzazione dell’indice bibliometrico da parte dei ricercatori per ottenere la promozione in carriera, corrisponde per gli studenti l’ottimizzazione delle medie e delle soglie necessarie ad ottenere la promozione alla maturità.
Così come i ricercatori tendono sempre più ad adottare tecniche che consentano di ottenere con il minimo sforzo il numero di lavori e quindi di citazioni necessari ai loro scopi, così i ragazzi – almeno nei casi eclatanti di cui discorriamo – hanno semplicemente calcolato qual era il valore dell’indice numerico necessario al proprio scopo, la promozione alla maturità, e hanno agito di conseguenza. Nessuno sforzo in più, se non quello necessario a raggiungere l’obiettivo: è un comportamento perfettamente razionale e perfettamente atteso in un sistema che si è trasformato in una griglia valutativa di indici numerici, ed anzi, in mancanza di correttivi, proprio come accaduto nel mondo della ricerca scientifica, vi è da attendersi che presto si diffonda nella popolazione liceale.
Il problema, esattamente come nel caso degli indici bibliometrici, sta nell’inevitabile disallineamento fra ciò che è necessario per ottimizzare un numero, e ciò che invece è necessario per migliorare la qualità di quanto si fa, che sia ricerca o che sia formazione; in questo, spiace rilevare come le confuse argomentazioni dei ragazzi contro il sistema di voto che appiattisce la valutazione e provoca competizione spasmodica abbiano un fondo di verità. Non quello magari che essi più sottolineano, cioè lo stress della verifica di apprendimento mediante voti numerici (ci siamo passati tutti e all’università quei ragazzi incontreranno lo stesso sistema), ma quello che a ben guardare è sotteso ai loro argomenti: alla fine, se tutto è trasformato in quantificazione numerica ossessiva (test scritti, interrogazioni e ogni cosa che sia misurabile), finisce che si perde di vista il vero obiettivo, la formazione, e ci si focalizza sui numeri da raggiungere, eliminando ogni sforzo, stress, tensione quando il numero minimo è raggiunto.
Certo, anche quando a scuola sono andato io, vi erano quelli che si accontentavano del minimo sindacale per passare l’anno (magari con qualche rinvio a settembre); ma il punto è che vi erano molti meno test “obiettivi”, indicatori e valutazioni numeriche su cui si poteva fare affidamento con certezza matematica di avercela fatta, e alla fine sempre dalla cattedra e da un orale si doveva passare, durante l’anno o alla fine, alla maturità. La valutazione è efficace se un docente è in grado di farla bene, non se esistono numeri dietro cui ci si può comodamente adagiare (professori, studenti o ministero): ciò di cui si deve esser certi è appunto la maturità formativa del maturando, e quella emerge mille volte meglio attraverso un colloquio e la valutazione della storia dello studente (affidata ai membri interni), senza inutili soglie di punteggio, regole ed ossessione numerica.
Non sto dicendo che i voti siano inutili o vadano aboliti (non intendo entrare nell’arena di questa disputa pluridecennale); ma gli algoritmi basati su quelli, al pari di quelli basati sul numero di pubblicazioni, finiscono per incarnare quelle metriche-obiettivo che si sostituiscono al vero scopo della scuola, perché, come sappiamo almeno dalla fulminante asserzione dell’economista inglese Charles Goodhart risalente al 1975, “When a measure becomes a target, it ceases to be a good measure”.