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wannabe rivoluzionari

A furia di circolari engagé, abbiamo allevato universitari squadristi

Tommaso Tuppini

Il prof. karateka contro i pro pal agguerriti ma rachitici. Se l’attivismo universitario è questo, allora ha più dignità chi copia agli esami e poi corre a casa a mostrare il libretto alla mamma

Quelli sì che sapevano il fatto loro: si trovavano in dieci, in venti, per pestare uno ed educarne cento. Beati katanga! A Venezia, invece, erano solo in quattro. Volevano far rinsavire a suon di botte un professore dello Iuav, colpevole d’allineamento con un rettore che non ha interrotto le collaborazioni con università israeliane, come l’Accademia delle Belle arti di Gerusalemme. Peccato che la vittima designata conoscesse le arti marziali, e dopo un paio di mosse gli studenti pro Pal hanno dovuto ripiegare. Delle aggressioni in stile anni Settanta resta intatta la vigliaccheria di gruppo, mentre la preparazione atletica non è più quella di una volta. I nuovi violenti assomigliano alle cover band che rifanno i classici, ma senz’anima. Stesse note, meno grinta. Pugni molli come le idee sanciscono il loro fallimento anche come squadristi.

Di solito, gli studenti s’improvvisano energumeni quando smettono di leggere, vengono ignorati dalle ragazze e si stufano delle droghe. La violenza politica è l’ultimo rifugio dei vitelloni che non accettano di esserlo. Ma non è tutta colpa loro, poveri ragazzi. L’università, senza volerlo, gli indica la strada. Negli statuti d’ateneo, nelle delibere dei senati accademici, nei regolamenti, si garantisce ed enfatizza tutto – inclusione, fratellanza, eguaglianza, diritti, rispetto di genere, bontà d’animo, alloggi gratis – tranne un piccolo dettaglio marginale: lo studio. Almeno sulla carta, l’università non serve più a formare menti ma ad allevare coscienze e fabbricare cittadini migliori, responsabili, consapevoli, engagé. Qualcuno, meno avveduto degli altri, ci crede al punto di prendersi il diritto di menare. L’impegno civico prima della grammatica, la lotta prima della tesi. E’ sufficiente sentirsi laureati dentro, magari dopo un’occupazione e una lettura veloce di Judith Butler. Che uno sappia scrivere una frase di senso compiuto, ma chissene. 

Il paese ufficiale si costerna e s’indigna. Quello reale e social applaude. In fondo, cos’è l’aggressione a un professore, rispetto ai crimini di Israele? Da noi, il livello del dibattito è questo. Non c’è granché da stupirsi. Indro Montanelli diceva che gli italiani stanno sempre con chi picchia, mai con chi le prende. Un popolo è astrattamente sedotto dalla violenza quanto più la sua natura è remissiva. Ed ecco che, nel silenzio educato della maggioranza, qualche ragazzotto con le idee confuse prova a farsi bello tirando due ceffoni, per quanto maldestri. Se l’attivismo universitario è questo, allora ha più dignità chi copia agli esami e poi corre a casa a mostrare il libretto alla mamma. Forse, però, una speranza c’è. Se la forma fisica dei wannabe rivoluzionari continuerà a peggiorare, presto resteranno solo gli slogan che, su quelle gambette rachitiche e quei bicipiti atrofizzati, non andranno lontano. Ma non illudiamoci eccessivamente: la vigliaccheria, quella no, non muore mai e cammina spedita.
 

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