
(foto LaPresse)
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Così il solo contratto nazionale ostacola la ricerca sul cancro. Il caso Airc
I bandi della Fondazione per la ricerca sul cancro sotto ai livelli retributivi stabiliti dal nuovo contratto. "Così ai ricercatori restano solo i co.co.co". I paradossi di una scelta che voleva combattere la precarietà
L’introduzione del solo contratto nazionale di ricerca rischia di bloccare il reclutamento dei ricercatori in un settore fondamentale come la ricerca in ambito oncologico. E’ una ulteriore criticità osservata dagli accademici in queste settimane, che merita di essere raccontata per i risvolti (deleteri) che potrebbe avere sul sistema della ricerca italiana.
Nelle prossime settimane è prevista la scadenza per le sottomissioni di borse post-dottorato presso la Fondazione Airc, attiva dal 1965 nella ricerca sul cancro. Fino allo scorso anno, queste borse erano contrattualizzate come “assegni di ricerca”, ma avendo il nuovo regime del contratto unico nazionale eliminato questa forma contrattuale, la situazione si complica. E non poco. La fondazione Airc mette a bando circa 35 mila euro di borsa, che sono sotto la soglia dei 37 mila euro, ovvero quella del contratto nazionale di ricerca. “Per questo dalla nostra università, la Statale di Milano, ci hanno detto che l’unica alternativa è il co.co.co, un contratto a ‘collaborazione coordinata e continuativa’", spiega Thomas Vaccari, docente di Biologia cellulare e applicata all’Università degli studi di Milano, firmatario di una lettera aperta per denunciare il malcontento del mondo accademico per l’ingessamento del sistema. Ma oltre al paradosso di sostituire uno strumento (gli assegni di ricerca) con un’alternativa ancor più precaria (appunto il co.co.co), ci sono anche altri problemi, di natura economica. “Oltre ai 35 mila euro, rimarrebbero fuori all’incirca 12 mila euro di oneri addizionali, non coperti, per l’appunto, dalla mancata adesione al contratto nazionale di ricerca. La soluzione che quindi stanno adottando università come la Statale di Milano è quella di chiedere a chi ospiterà il lavoro di ricerca del post-doc, quindi ai capi laboratorio, di sottoscrivere una lettera in cui ci impegna a non far ricadere sull’ente universitario la differenza economica dovuta agli oneri”, spiega ancora Vaccari. In sostanza, i capi laboratorio, che in teoria dovrebbero essere dediti al lavoro di ricerca, dovranno utilizzare una parte del loro tempo per andare a reperire risorse aggiuntive da altre fonti, ad esempio da altri bandi o dal privato. Questo perché senza le risorse aggiuntive, dovranno sconsigliare ai potenziali ricercatori di applicare per il bando Airc, non potendo pagare il differenziale e non potendolo scaricare sugli atenei. In un’università come la Statale di Milano, i ricercatori che di solito aderiscono a questi programmi di ricerca sono almeno una decina ogni anno (la scadenza dell’assegno, di solito, è proprio annuale).
Può sembrare un discorso unicamente tecnico, ma il meccanismo innescato dal contratto nazionale di ricerca come unico strumento contrattuale ha eliminato tutte le forme alternative di contrattualizzazione, come gli assegni di ricerca, particolarmente funzionali a progetti di ricerca come quello di Airc. La rigidità attuale, invece, favorita da un emendamento voluto all’epoca del governo Draghi dal Pd e sostenuto dai sindacati (in particolare la Cgil) rischia di far rimanere i progetti stessi di ricerca al palo.
Non è l’unica criticità (oltre a quelle che abbiamo già raccontato sul Foglio). Un’altra distorsione prevista dal contratto unico di ricerca è quello di tagliare fuori i ricercatori italiani da alcuni specifici programmi europei. A livello Ue esistono le borse “Marie Skłodowska-Curie” per i post-doc. Attivati tramite fondi della Commissione europea e che vanno alle università italiane che vincono un determinato bando relativo a un determinato network (ce ne sono all’incirca una dozzina). Il problema? Che anche questi finanziamenti avvengono attraverso assegni di ricerca, com’è costume e abitudine a livello comunitario. Per questo l’eliminazione italiana resta un vulnus cui bisognerebbe cercare di porre rimedio il prima possibile. “In queste settimane ho sentito dire cose lunari dall’Associazione dottorandi e dottori di ricerca (Adi)”, spiega ancora Vaccari. “Ovviamente siamo tutti per il riconoscimento delle garanzie come il versamento dei contributi e il tfr, perché è vero che il periodo di ricerca non è solo di formazione ed è giusto che valga dal punto di vista previdenziale. Ma l’eliminazione di forme contrattuali flessibili va a detrimento degli stessi ricercatori. Col rischio che si restringa il percorso di tanti progetti che potrebbero trasformarsi in buona ricerca. Serve insomma una soluzione, almeno temporanea, che risolva queste gravi storture che complicano la vita ai nostri ricercatori”.