Università Statale di Milano. LaPresse/Mourad Balti Touati

A Firenze vogliono far pagare di più gli universitari fuoricorso. Giusto

Antonio Gurrado

Quando gli universitari protestano, è sempre buon segno: vuol dire che sta venendo proposto qualcosa di interessante

Quando gli universitari protestano, è sempre buon segno: vuol dire che sta venendo proposto qualcosa di interessante. Dopo le sommosse milanesi contro il numero chiuso nelle facoltà umanistiche della Statale, ieri è toccato agli iscritti dell’università di Firenze. Il paradosso è che stavolta sigle riconducibili alla sinistra universitaria – in particolar modo l’Unione degli Universitari – hanno scelto di osteggiare la logica conseguenza dell’applicazione di una direttiva ministeriale volta a favorire gli studenti più svantaggiati economicamente. Il ministero ha infatti richiesto che le università creino una no tax area per studenti con indicatore di reddito familiare (Isee) uguale o inferiore a tredicimila euro, ai quali venga consentito di non pagare tasse d’iscrizione a patto che siano regolari e produttivi. Regolari significa che non siano oltre un anno fuori corso; produttivi, che abbiano conseguito un determinato numero di crediti formativi annui. Zitto zitto, si tratta di un rinnovamento della definizione di studente, che differenzia la massa finora indistinta in quattro possibili figure: l’universitario regolare e produttivo, quello regolare ma non produttivo, quello non regolare ma produttivo e, infine, l’universitario né regolare né produttivo, pittoresco prodotto tipico dell’accademia nostrana.

   

Ieri, a Firenze, è stata discussa in Commissione didattica d’ateneo l’estensione di questa distinzione anche al di sopra dei tredicimila euro di Isee. Ciò che ha causato le civili rimostranze dell’Udu è stata la proposta di distinguere gli studenti in tre gruppi che, per comodità d’identificazione, possiamo draconianamente rinominare come segue. Quelli bravi, ossia regolari e produttivi; quelli normali, ossia o regolari o produttivi; quelli scarsi, ossia quelli che sono in ritardo di più di un anno e non riescono ad accumulare un congruo numero di crediti formativi. A ciascun gruppo sarà applicata una tassazione crescente, ovvero sarà tolto di meno alle tasche dei più bravi e di più ai meno bravi. A questo punto ci sono due strade. O ci addentriamo su quale risparmio o aggravio, abaco alla mano, questa riforma del sistema di tassazione comporti per ciascuna fascia di reddito; è ciò che hanno fatto i protestatari. Oppure leggiamo questa coraggiosa ristrutturazione in prospettiva, per capire su quale necessario cambiamento di mentalità sia basata. In Italia il termine “produttivo”, nel contesto dell’istruzione, fa sempre fischiare le orecchie perché viene associato al settore privato e a criteri volgarmente aziendali per la distribuzione di premi. Sotto questo aspetto, l’idea di avvantaggiare uno studente produttivo rispetto a uno improduttivo è contraria al concetto comunemente inteso, se non luogo comune, di “diritto allo studio”. Tuttavia l’idea che studenti produttivi e improduttivi debbano pagare le stesse tasse è molto simile all’idea che uno studente sia cliente dell’università: e che pertanto il pagare dia a tutti il diritto di essere trattati allo stesso modo senza considerare il profitto. Sarebbe come dire che il “diritto allo studio” dà diritto a eguale trattamento indipendentemente dallo studiare o meno. Se invece si considerano le tasse come contributo che l’iscritto fornisce alla sopravvivenza dell’università, i cui studenti non regolari né produttivi costituiscono una zavorra, allora è ovvio che questi ultimi debbano contribuire maggiormente all’istituzione su cui gravano. Di fatto viene adottato un discrimine fra due tipi di studenti: quelli che prendono l’università seriamente come un lavoro, e che come ogni lavoratore devono ricevere incentivi economici; quelli invece che prendono l’università come passatempo quindi devono pagarla in proporzione, perché tutti i vizi costano. E’ il passaggio dal “diritto allo studio” al diritto di studiare bene; un passo ancora verso l’università ideale, quella in cui gli studenti lavativi pagheranno le tasse dei migliori.