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Cattivi scienziati
Pseudoscienza in Regione: il caso Lombardia e il linguaggio che legittima l'infondatezza
Dal catalogo regionale che attribuisce poteri immaginari alle Discipline Bio Naturali alla risposta dell’assessora Tironi che parla di “risorse vitali”: due casi che mettono a nudo una deriva comunicativa che rischia di dare credibilità istituzionale a pratiche senza basi scientifiche
In Italia continua a circolare l’idea che la pseudoscienza sia un problema di periferia culturale, una faccenda marginale, confinata in qualche angolo del web o fra chi cerca soluzioni alternative per disperazione. Poi capita di leggere una risposta ufficiale della Regione Lombardia firmata da un assessore con deleghe all’Istruzione, alla Formazione e al Lavoro, e ci si accorge che l’erosione del linguaggio pubblico non viene solo dal basso. A volte parte proprio da quei territori che amano presentarsi come modello di modernità, innovazione e “sanità di eccellenza”. È qui che la vicenda delle Discipline Bio Naturali diventa un caso esemplare per capire la deriva culturale che stiamo attraversando. La storia comincia quasi vent’anni fa, con una legge regionale nata per dare ordine a un settore confuso, quello delle pratiche di benessere non sanitarie. La Regione istituisce registri, albi, un Comitato Tecnico formato dalle associazioni stesse, e un catalogo delle attività formative.
Il punto di svolta arriva quando la Regione pubblica sul proprio sito istituzionale un Catalogo dell’Offerta Formativa che descrive in dettaglio le varie pratiche. In quelle pagine si legge che la riflessologia facciale “riprogrammerebbe” gli organi interni; che alcune tecniche permetterebbero di percepire il “livello energetico vibrazionale della persona” attraverso campane tibetane e tamburi; che la radiestesia servirebbe ad analizzare “energie sottili” e riequilibrare gli stati interni. Sono descrizioni formulate con parole che simulano una tecnicità inesistente e che, una volta pubblicate da un ente pubblico, non sono più semplici esagerazioni commerciali. Diventano un messaggio istituzionale.
Di fronte a questo catalogo, la consigliera regionale Lisa Noja presenta un’interrogazione che ricostruisce punto per punto il contenuto pubblicato dalla Regione. Non giudica la libertà individuale, non interviene sul fatto che operatori privati credano in quelle pratiche. Chiede soltanto come possa una Regione pubblicare affermazioni simili senza alcuna verifica, e quali strumenti preveda per evitare che i cittadini interpretino quel catalogo come una forma di legittimazione. A fianco dell’interrogazione, il CICAP elenca in una sua lettera aperta gli elementi più problematici: espressioni e pratiche che hanno una lunga storia nel mondo delle pseudomedicine, fra cui l’idea di “forze vitali” e “matrici energetiche”, concetti che riecheggiano tradizioni magico-naturaliste.
Da qui si arriva alla risposta dell’assessore Simona Tironi. Il testo si apre con una lunga rievocazione della legge del 2005, della sua approvazione unanime, dell’assenza di costi, del funzionamento dei registri. Tutto accurato, tutto corretto dal punto di vista procedurale, ma completamente irrilevante rispetto ai rilievi avanzati. Il problema non sta nel lontano 2005 ma in ciò che la Regione comunica oggi ai cittadini. La parte cruciale è altrove. È quando l’assessore decide di spiegare, con parole proprie, cosa sarebbero queste Discipline Bio Naturali. Invece di chiarire, introduce nella risposta ufficiale una formula che definire imbarazzante è un eufemismo: secondo la Regione Lombardia, queste pratiche servirebbero a “stimolare le risorse vitali dell’individuo attraverso metodi ed elementi naturali”. Questo è il punto che segna il crollo.
“Risorse vitali” è un’espressione che non ha cittadinanza in alcun contesto istituzionale, né sanitario né formativo né giuridico. È la formula che si legge nei volantini di centri olistici improvvisati, nei testi motivazionali più spinti, nei gruppi social che vendono equilibrio interiore e pietre energetiche. Vederla comparire in un atto formale della Regione Lombardia, nella risposta di un’assessora con deleghe che includono l’istruzione, significa che il filtro culturale è saltato: parole prive di senso tecnico entrano nella comunicazione ufficiale come se fossero concetti neutri.
Non è un dettaglio. Un cittadino che legge una frase del genere attribuisce automaticamente credibilità istituzionale a quel concetto. E se una Regione parla di “risorse vitali”, il cittadino può ragionevolmente credere che tali risorse esistano davvero e che operatori accreditati possano “stimolarle”. È così che la pseudoscienza acquisisce un’aura istituzionale: non attraverso grandi proclami, ma attraverso frasi gettate con leggerezza dentro un documento ufficiale. E non è finita. Dopo aver evocato le “risorse vitali”, l’assessora afferma che queste pratiche avrebbero “dimostrato la loro validità nei contesti culturali e territoriali in cui si sono sviluppate”. La “validità nei contesti culturali” viene usata come se potesse rimpiazzare un risultato terapeutico dimostrato, ovviamente distinto dal placebo. Una tradizione non dimostra nulla: esiste, e basta. Chiamare “validità” ciò che è semplicemente consuetudine significa travestire un’abitudine in un fatto. È un altro scivolone che rivela lo stesso problema: un linguaggio pubblico che non distingue più ciò che è verificato da ciò che è soltanto raccontato.
Il quadro si chiude con un riferimento all’uso di queste discipline in ospedali, RSA, università e carceri. Nessun nome, nessun progetto, nessuna descrizione. Solo un accenno generico, il tipo di formula che serve a suggerire l’esistenza di un riconoscimento senza assumersi l’onere di dimostrarlo. Ed è esattamente questo il modo più efficace per confondere i cittadini. La vicenda è chiara: un catalogo regionale che attribuisce poteri immaginari a pratiche prive di prove; un’interrogazione che chiede conto di ciò che la Regione stessa ha pubblicato; una risposta che non affronta nessuna domanda e che, peggio ancora, adotta e amplifica gli stessi concetti nebulosi che doveva chiarire. L’esempio lampante è proprio quella frase sulle “risorse vitali”: l’ingresso diretto, senza filtro, del linguaggio pseudoscientifico nella voce dell’istituzione. Ed è qui che la questione smette di essere tecnica e diventa politica. La Lombardia ama presentarsi come una regione guida, una locomotiva, un modello di sanità di eccellenza. Questa vicenda mostra invece che, quando la vigilanza culturale si allenta, la pseudoscienza non arriva da fuori: si insinua dentro gli atti pubblici, nella tranquillità delle frasi scritte con superficialità.
E a quel punto l’eccellenza rimane solo una parola da dépliant. La credibilità si misura altrove: nelle scelte linguistiche, nella cura delle informazioni, nella capacità di capire cosa si sta comunicando. L’assessora Simona Tironi e chi governa la Lombardia devono spiegare come sia stato possibile che una frase come “stimolare le risorse vitali” sia finita in un documento ufficiale. Quella frase è un segnale che indica una deriva culturale che va affrontata subito, prima che si normalizzi. Se davvero la Lombardia vuole rivendicare la sua eccellenza, deve iniziare da qui: dal rifiuto netto di qualsiasi linguaggio che avvicini l’istituzione alla pseudoscienza, e dall’impegno a ripulire i propri atti da concetti che non dovrebbero entrare in nessun documento pubblico.
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