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cattivi scienziati
Perché la pseudomedicina è un danno al sistema sanitario nazionale
Chiamare “integrazione” ciò che spesso è rinvio, sostituzione o deviazione dal percorso basato sull’evidenza mina la fiducia collettiva nella medicina e scarica costi che dovremmo considerare pubblici, anziché individuali
Il recente caso di Francesco, morto a 14 anni perché genitori e medici hanno preteso di trattare un cancro con la pseudomedicina di Hamer, è solo l’ultimo a ricordarci quanto male alla salute fa l’allontanarsi dalla scienza. Tuttavia, al di là dei singoli casi, vorrei provare ad esaminare una questione: quanto danno fa al sistema sanitario nazionale, cioè alla salute di tutti, l’adozione della pseudomedicina e il riconoscimento di “atto medico” che a talune pratiche come omeopatia, medicina antroposofica ed altre baggianate è oggi attribuito nel nostro paese? Preliminarmente bisogna correggere un mito: quello cioè che tali pratiche, costantemente dipinte come “integrative”, non siano invece adottate come sostituitive e alternative – proprio come successo nel caso del povero Francesco. Il marketing della pseudomedicina, infatti, si è evoluto proprio in direzione del “complementare” ed “integrativo” per evitare l’accusa di allontanare le persone da terapie più efficaci di un placebo; ma, al di là di ciò che si dichiara, val la pena esaminare nei fatti se le persone che adottano certe credenze e trovano medici disposti a compiacerle davvero poi semplicemente integrino, invece di sostituire.
I fatti sono chiari: studi internazionali disegnano una correlazione tra utilizzo di medicine alternative e peggioramento della prognosi o ritardo nell’accesso alla cura convenzionale. Uno studio norvegese, per esempio, ha mostrato che l’uso di medicine alternative in pazienti oncologici si associa a una maggiore probabilità di morte rispetto a non-utilizzatori. Un altro lavoro ha verificato che le persone che ritardano l’accesso alle cure convenzionali sono più propense a usare più tipi di pratiche alternative.
Una revisione sistematica evidenzia rischi concreti legati all’uso di pratiche non validate, anche in termini di mancata efficacia e interazioni negative. Un ulteriore studio su pazienti oncologici nel contesto asiatico ha confermato che l’uso di CAM tra i pazienti terminali non ha migliorato né sopravvivenza né qualità di vita, e in alcuni casi associato a esiti peggiori. Il ritardo nel presentarsi per ricevere cure oncologiche è stato confermato anche in studi più recenti, confermando uno studio pubblicato su JAMA nel 2018 e condotto su quasi 2 milioni di pazienti.
Come si vede, si ha ben ragione nel dubitare che le pseudomedicine siano davvero usate come complementari, ed anzi esistono solidi dati che indicano come una consistente fetta di pazienti le usa come sostitutive, ritardando terapie e diagnosi appropriate. In Italia i dati più solidi disponibili indicano che circa il 7 per cento della popolazione adulta utilizza annualmente terapie non convenzionali. Se si assume una spesa media prudente tra 60 e 120 euro a persona all’anno, la perdita diretta di risorse private inutilmente impiegate si colloca tra circa 250 e 500 milioni di euro l’anno. Se si assume che la detrazione fiscale valga per 5-10% di quella spesa e si applica un’aliquota del 19 per cento, l’onere erariale resta nell’ordine di qualche decina di milioni di euro. Il punto centrale, però, non è la spesa privata, ma il costo del tempo perso nella diagnosi e nella terapia efficace. Per le patologie oncologiche, cardiovascolari e metaboliche — che assorbono la maggior parte della spesa sanitaria — anche piccoli ritardi si traducono in aumento di costi e peggioramento degli esiti. In Italia nel 2024 sono stimate circa 390.100 nuove diagnosi di tumore (AIOM). Se si assume che tra gli utilizzatori delle pratiche non convenzionali (circa 4 milioni), una quota del 20 per cento conviva con patologie ad alto impatto (circa 800.000 persone), che il 10% di questi accumuli ritardi clinicamente rilevanti nella cura convenzionale (circa 80.000 casi/anno), e che ciascun caso generi un sovraccosto medio prudente di 7.500 euro per il SSN, si ottiene un sovraccarico diretto da ritardo pari a 80.000 × 7.500 = 600 milioni di euro annui. A questa cifra va sommata la perdita di produttività: ipotizzando che la perdita di produttività sia 0,8 volte il costo diretto (480 milioni), il totale per ritardo arriva a circa 1,08 miliardi di euro. A ciò si aggiunge la componente dell’esitazione vaccinale alimentata dal contesto pseudoscientifico. Studi italiani mostrano che una quota non trascurabile di adulti ha ritardato o rifiutato vaccinazioni raccomandate per motivi legati a fiducia e alfabetizzazione sanitaria. Anche se non esiste una stima nazionale precisa dei costi annuali legati esclusivamente all’esitazione vaccinale, un’analisi costi-benefici per la coorte pediatrica 2020 stima che 285 milioni di euro spesi in vaccini evitano circa 1,6 miliardi di costi da malattie prevenibili.
Se la copertura scende a causa di esitazione e pseudoscienza, la perdita è dell’ordine di centinaia di milioni. Alla fine, nella nostra stima grossolana i costi complessivi (spesa privata inefficace + sovraccosti da ritardi + perdita di produttività + costi da prevenzione mancante) raggiungono un ordine di grandezza dell’ordine di alcuni miliardi di euro all’anno. Il danno per la sostenibilità del sistema sanitario nazionale è dunque reale: non si tratta solo di chi spende per terapie inefficaci, bensì di un sistema che deve farsi carico di conseguenze che avrebbero potuto essere evitate. Più ricoveri, trattamenti più complessi, invalidità anticipata, giornate di lavoro perse significano risorse sottratte ad altri pazienti e una minore capacità del SSN di rispondere in modo tempestivo e completo. Chiamare “integrazione” ciò che spesso è rinvio, sostituzione o deviazione dal percorso basato sull’evidenza mina la fiducia collettiva nella medicina e scarica costi che dovremmo considerare pubblici, anziché individuali. Correggere questo squilibrio impone di riallineare definizione, regolazione e comunicazione pubblica al solo criterio che ha dimostrato di ridurre costi e sofferenza: l’efficacia provata, e non “l’atto medico” di somministrazione di variegati placebo.
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