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Cattivi scienziati
L'unica risposta alle malattie rare è politica, collettiva e strutturale
Quando la possibilità di cura dipende dalla redditività della malattia, lo stato abdica alla propria funzione più alta e trasforma il diritto alla salute in un privilegio di mercato. Il caso Holostem è diventato il simbolo di questo fallimento morale
In medicina esistono settori in cui la conoscenza avanza rapidamente e altri in cui il progresso resta quasi fermo, non per mancanza di idee o di tecnologie, ma per assenza di convenienza economica. Le malattie rare appartengono a questa seconda categoria. Ognuna colpisce un numero ristretto di persone, troppo piccolo per interessare il mercato, eppure, sommate tra loro, coinvolgono milioni di cittadini. La rarità di ciascuna non si traduce in irrilevanza collettiva: al contrario, la somma di tutte le malattie rare costituisce un problema sanitario e sociale di dimensioni enormi. È un’intera parte della popolazione che vive senza diagnosi, senza farmaci, senza percorsi di cura strutturati, e che chiede risposte che il mercato non può dare.
Questo è il punto centrale: il problema non è marginale, e proprio per questo non può essere ignorato. Ogni singola malattia rara ha pochi pazienti, ma la collettività dei malati rari è tutt’altro che piccola. Si tratta di una massa di bisogni clinici e assistenziali che, nel loro insieme, superano quelli di molte patologie comuni. Ma poiché il mercato valuta ogni singola condizione come non redditizia, il risultato è una paralisi sistemica: nessun attore economico può affrontare da solo un insieme di problemi così frammentati e complessi, e nessun ritorno finanziario può giustificare i costi di ricerca e di sviluppo necessari. È esattamente in queste situazioni che dovrebbe intervenire lo Stato. Quando il beneficio sociale è alto ma il profitto privato è nullo, l’intervento pubblico non è una scelta politica tra le altre: è una necessità strutturale. La ricerca e la cura delle malattie rare non sono un lusso solidale, ma un dovere di equità sanitaria. Ogni fallimento in questo campo si traduce in esclusione: di diritti, di salute, di dignità.
Nella pratica, però, l’intervento pubblico resta insufficiente. Negli ultimi decenni, la ricerca biomedica è stata progressivamente delegata al settore privato, mentre lo Stato si è limitato a introdurre incentivi indiretti – agevolazioni fiscali, esenzioni regolatorie, monopoli temporanei per i cosiddetti farmaci orfani – con l’illusione che bastasse “rendere conveniente” ciò che in partenza non lo è. Ma i meccanismi economici non cambiano la natura dei bisogni: nessuna agevolazione può trasformare un mercato assente in un mercato redditizio. Il risultato è che i rischi restano pubblici e i profitti privati.
L’Italia offre esempi chiari di questo fallimento. Il caso di Holostem, spin-off dell’Università di Modena che aveva sviluppato una terapia cellulare avanzata per la ricostruzione della cornea, lo dimostra con precisione. Una scoperta nata in un laboratorio pubblico, validata clinicamente e premiata a livello internazionale, è stata lasciata senza continuità. Quando la società è stata acquisita da Enea Tech and Biomedical, dopo l’abbandono da parte di Chiesi che ha stabilito di non volerci più perdere soldi, con l’obiettivo dichiarato di rilanciarne la filiera, tutto si è fermato di nuovo. L’operazione, pur formalmente riuscita, non ha prodotto né una linea produttiva attiva né un piano strategico. È l’immagine esatta di un Paese che interviene solo per evitare il fallimento immediato, ma senza una visione di lungo periodo, senza un sistema capace di generare e mantenere competenze. Molti centri universitari e IRCCS che si occupano di malattie rare vivono la stessa precarietà: bandi brevi, fondi vincolati, progetti a termine. La logica del “finanziamento a progetto” distrugge la continuità necessaria per accumulare dati, seguire pazienti nel tempo, formare personale stabile. In un settore dove ogni caso è prezioso, la frammentazione dei fondi è una condanna all’inefficienza.
In altri Paesi, l’impostazione è diversa. Il NIH Rare Diseases Clinical Research Network negli Stati Uniti e l’INSERM in Francia garantiscono finanziamenti di base a lungo termine, coordinano biobanche, raccolgono dati standardizzati e assicurano continuità agli studi. In Italia, invece, gran parte del carico è stato assorbito da fondazioni private come Telethon, che ha sostenuto per decenni la ricerca genetica e clinica colmando il vuoto lasciato dallo Stato. I risultati sono stati straordinari, ma non possono sostituire un’azione pubblica. Telethon finanzia eccellenze scientifiche, non infrastrutture di sistema. Il problema non è soltanto di risorse, ma di impostazione. Le politiche di finanziamento italiane continuano a premiare la produttività bibliometrica, la rapidità e l’impatto economico, ignorando che in questo campo la produttività è necessariamente diversa: lenta, continua, basata su piccole casistiche e su progetti di lungo periodo. Il rigore scientifico, invece di essere premiato, diventa un ostacolo competitivo. L’Unione Europea, con la creazione delle European Reference Networks (ERNs), ha riconosciuto la necessità di una risposta sovranazionale. Ma le reti, pur rappresentando un passo importante, non dispongono di risorse adeguate per garantire attività clinica e ricerca coordinata. Restano piattaforme burocratiche, prive di fondi operativi stabili e di un vero mandato strategico. In Italia la partecipazione è frammentaria: centri eccellenti isolati, privi di un sostegno nazionale integrato.
Questa frammentazione non è solo un difetto organizzativo: è una forma di diseguaglianza. Milioni di persone vivono con malattie che non generano profitti, e quindi non attirano risorse, pur rappresentando collettivamente una delle più vaste categorie di pazienti cronici. È un’enorme area di bisogno medico non coperto. La mancanza di una risposta pubblica adeguata produce un doppio danno: da un lato, abbandona i pazienti; dall’altro, priva la società di una parte essenziale del proprio progresso sanitario. Una politica sanitaria seria deve riconoscere che il mercato, da solo, non può affrontare questo problema. Le malattie rare richiedono una rete pubblica integrata, con finanziamenti stabili, centri di riferimento con presa in carico permanente, biobanche nazionali, e una produzione pubblica o pubblico-privata di terapie avanzate destinata a piccole popolazioni. Gli incentivi economici devono essere vincolati a obblighi di accesso equo e a condivisione dei dati. Gli investimenti devono essere misurati non in termini di profitto, ma di riduzione delle disuguaglianze sanitarie.
Quando si sommano tutte le malattie rare, si comprende che non si tratta di un’area marginale della medicina, ma di un intero continente dimenticato della salute pubblica. La popolazione coinvolta è enorme, i bisogni sono reali, e nessuna forza di mercato potrà mai colmarli. L’unica risposta possibile è politica, collettiva e strutturale. Rinunciare a costruire una politica pubblica per le malattie rare significa accettare che il valore di una vita dipenda dal numero di persone che condividono la stessa malattia. Eppure in Italia questa rinuncia è ormai un fatto compiuto. È lo Stato stesso, con la sua inerzia e con le sue scelte errate, a perpetuare una disuguaglianza incompatibile con il dettato costituzionale. L’articolo 32 riconosce la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, ma milioni di cittadini, molti dei quali bambini, vivono esclusi da questo diritto. Non per mancanza di conoscenze scientifiche o di competenze, ma per assenza di un modello istituzionale adeguato.
Il caso Holostem è diventato il simbolo di questo fallimento morale prima ancora che politico. Bambini che avrebbero potuto tornare a vivere, che aspettavano una cura nata nei laboratori pubblici italiani, si trovano oggi senza alcuna prospettiva, perché nessuno ha saputo garantire la continuità produttiva di una terapia che non prometteva profitti. È un crimine di omissione compiuto nel silenzio delle istituzioni. Il governo, le regioni, le agenzie regolatorie, tutti gli organismi preposti alla tutela della salute pubblica, sono intervenuti, ma nel modo sbagliato. Hanno scelto un veicolo istituzionale — Enea Tech and Biomedical — che, al di là degli auspici e delle dichiarazioni, persegue ancora obiettivi di valorizzazione economica e di trasferimento tecnologico, e quindi non è adatto a garantire la produzione stabile e non profit di terapie per malattie che non hanno mercato. È una scelta che tradisce una confusione di fondo: quella tra il sostegno all’innovazione industriale e il dovere di garantire l’accesso universale alla cura.
La conseguenza è che il tentativo pubblico di intervento si è trasformato in un’operazione priva di efficacia, una forma di politica simbolica che non ha modificato la realtà dei pazienti, ma solo la narrazione istituzionale. E mentre le strutture restano inattive, i bambini che attendevano la terapia restano senza possibilità. Questa non è una carenza tecnica: è una violazione etica. È la negazione esplicita non solo dell’articolo 32, ma anche del principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione, secondo cui è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Quando la possibilità di cura dipende dalla redditività della malattia, lo Stato abdica alla propria funzione più alta e trasforma il diritto alla salute in un privilegio di mercato.
Non esiste giustificazione economica per questa disparità. La somma dei pazienti affetti da malattie rare è enorme: rappresenta una delle più vaste categorie di cittadini cronici, un problema sanitario e sociale di scala nazionale. Ignorarlo o affrontarlo con strumenti economici inadeguati non significa risparmiare, ma sottrarre valore umano e civile al Paese stesso. Un Paese che accetta che i propri bambini attendano invano una cura già scoperta, solo perché non redditizia, non è povero di risorse: è povero di pietà, di visione e di coscienza pubblica. La scienza, in questo campo, ha già fatto il suo dovere. Ora è lo Stato che deve fare il proprio.