Ansa

Cattivi scienziati

I conti dell'antroposofia con il suo passato

Enrico Bucci

Secondo lo studio di Anne Sudrow, Weleda (azienda fondata per volontà di Rudolf Steiner) intrattenne rapporti diretti con le SS, acquistando erbe medicinali coltivate a Dachau a prezzi di favore e fornendo, in cambio, una crema “antigelo” per proteggere la pelle dei soldati sul fronte orientale

Anni fa, quando mi immersi nei documenti per ricostruire i rapporti fra nazismo, antroposofia e agricoltura biodinamica, ne uscì un quadro sfaccettato. Da una parte la doppiezza del regime: gerarchi che, dopo aver messo al bando la Società Antroposofica, ne perseguitarono i membri, e altri – soprattutto nelle SS – che ne favorirono le pratiche, arrivando a sperimentare l’agricoltura biodinamica in appezzamenti controllati. Dall’altra, trovai che nel campo di Dachau esistevano orti sperimentali biodinamici in cui i reclusi erano costretti a lavorare e condotti da ex dipendenti di Weleda, l’azienda fondata per volontà diretta di Rudolf Steiner e fulcro della cosiddetta “medicina antroposofica”. La conclusione a cui arrivai, prudente, era che, per quanto l’infatuazione di alcuni gerarchi nazisti per le frottole steineriane fosse documentata, non c’erano prove che gli antroposofi e i biodinamici avessero deliberatamente trovato nel nazismo un alleato utile, né che avessero scelto di collaborare con esso in maniera organica. Poteva benissimo essere il frutto di convergenze occasionali, di mode esoteriche del regime, invece di un disegno consapevole da parte degli antroposofi stessi.

 

Oggi, però, la situazione cambia. Una ricerca imponente di Anne Sudrow, sostenuta dal Memoriale di Dachau e rilanciata dalla BBC, mette in luce legami molto più stretti di quanto si pensasse. Secondo lo studio, Weleda intrattenne rapporti diretti con le SS almeno dal 1941, acquistando erbe medicinali coltivate a Dachau a prezzi di favore e fornendo, in cambio, una crema “antigelo” pensata per proteggere la pelle dei soldati sul fronte orientale. Quella crema, secondo la nuova documentazione, giunse all’indirizzo privato di Sigmund Rascher, medico delle SS che fra l’agosto 1942 e il maggio 1943 condusse a Dachau esperimenti di ipotermia su prigionieri immersi in vasche d’acqua con blocchi di ghiaccio. Le ricostruzioni parlano di circa trecento internati coinvolti e di un bilancio di morti compreso tra ottanta e novanta persone. Ex dipendenti di Weleda risultano coinvolti direttamente nella gestione delle coltivazioni e nella trasmissione dei risultati. Il quadro che emerge è quello di una connessione strutturale: non solo interesse ideologico, ma scambi di merci, persone, conoscenze, in un contesto di sfruttamento concentrazionario.

 

Questo rende ancora più significativa la pagina che, fino all’agosto 2025, campeggiava sul sito ufficiale di Weleda e che ora è stata modificata. In quella pagina, l’azienda si autoassolveva con toni che suonano familiari a chi conosce le difese dei sostenitori nostrani di Steiner: “Weleda did not participate in the inhumane policies of the Nazi dictatorship” si leggeva, insieme all’affermazione di non aver mai impiegato lavoro coatto. La consegna della crema antigelo era ridotta a un “one-time delivery of 20 kilograms”, precisando che era stata spedita all’indirizzo privato di Rascher e che “Weleda had no idea how the cream would be used”. Persino la presenza a Dachau dell’ex dipendente di Weleda Franz Lippert, in qualità di direttore del famoso orto biodinamico, era presentata come azione benevola. Infine, l’azienda sottolineava di aver già aperto i propri archivi e di aver ricevuto un rapporto di storici che l’assolveva da responsabilità dirette – il rapporto GUG 2024, a questo punto superato. È il paradigma classico della difesa: c’era il contesto, c’era la pressione, si è cercato di limitare i danni, ma non si sapeva, non si partecipava.

 

Alla luce di quanto oggi sappiamo, questa auto-narrazione non basta più. Non si tratta solo di interpretazioni morali, ma di documenti, lettere, consegne, rapporti economici che mettono in relazione l’azienda con le strutture SS e con pratiche criminali. La scelta di Weleda di annunciare una nuova inchiesta indipendente, con accesso completo agli archivi e un orizzonte di due anni per accertare le responsabilità, è la presa d’atto della gravità delle accuse e dell’insufficienza della precedente auto-indagine. Siamo di fronte a un cambio di passo necessario: la tesi comoda dell’infatuazione individuale non regge più di fronte a evidenze di collaborazione pratica, di contributi materiali a un sistema di morte. Resta importante distinguere tra le colpe individuali e la responsabilità d’impresa, ma la memoria storica esige che si dica chiaramente quando un soggetto ha tratto vantaggio da un sistema criminale, anche solo per continuare a produrre e commerciare. Per chi oggi difende la “purezza spirituale” dell’antroposofia e della biodinamica, questa è una prova del nove: non basteranno più le favole spiritiche o le narrazioni consolatorie, servirà misurarsi con l’evidenza documentale. E se un’azienda come Weleda – cuore economico del movimento – sente il dovere di riaprire i propri archivi, vuol dire che la verità storica non è più eludibile.