
Ansa
Cattivi scienziati
I nostri cervelli condividono una comune grammatica del colore
Se i dati saranno confermati, servirà ripensare i modelli di come il cervello costruisce l’esperienza visiva. Lo studio potrebbe segnare un passaggio importante: ciò che per millenni è stato un enigma filosofico comincia a diventare una questione empirica
Una domanda che ha attraversato secoli di riflessioni, tra filosofia, arte e scienza, è se il colore che vedo io, quando guardo un fiore, un frutto o il cielo, sia davvero lo stesso che vede il mio vicino. Non basta che tutti lo chiamiamo “rosso” o “blu” e che sappiamo distinguerlo in modo coerente: resta l’interrogativo più sottile, quello sulla sensazione interiore, sul vissuto percettivo. È un enigma che ha sempre resistito alla verifica, confinato nell’ambito della soggettività. Ora, però, arriva un dato sorprendente dalla neuroscienza. Un gruppo di ricercatori guidato da Andreas Bartels e Michael Bannert, all’Università di Tubinga, ha dimostrato che i colori sono rappresentati e codificati nel cervello in modo molto simile da persona a persona. Lo studio, appena pubblicato sul Journal of Neuroscience, mostra che quando osserviamo un colore, la nostra corteccia visiva produce schemi di attivazione che non solo sono riconoscibili, ma sono anche condivisi tra individui diversi.
Il risultato nasce da un esperimento condotto con risonanza magnetica funzionale (fMRI) su 15 volontari, di cui 12 inclusi nell’analisi finale. Ai partecipanti venivano presentati 24 colori distinti, distribuiti uniformemente nello spazio cromatico. Ogni stimolo era ripetuto molte volte, intervallato da pause di controllo. L’obiettivo era costruire una mappa cerebrale precisa per ciascun colore, verificando se queste mappe si sovrapponessero da un cervello all’altro. Per analizzare i dati, i ricercatori hanno usato un classificatore lineare, un algoritmo di apprendimento automatico in grado di distinguere pattern complessi. Addestrato sui dati di un primo gruppo di partecipanti, il modello veniva poi testato su un secondo gruppo: in molti casi, riusciva a predire correttamente quale colore stessero osservando, basandosi unicamente sull’attività cerebrale. Questo dato dimostra che le rappresentazioni neurali dei colori non sono idiosincratiche, ma seguono regole comuni.
Lo studio ha anche rivelato dettagli interessanti sull’organizzazione corticale: nell’area V4, da tempo associata alla visione dei colori, esistono sotto-regioni che rispondono in modo preferenziale a specifiche tonalità, come il rosso, il verde o il blu. Queste “mappe cromatiche” non sono casuali, ma mostrano una distribuzione spaziale replicabile nei diversi individui. Non si tratta di una codifica rigida: i neuroni rispondono in gradiente, con preferenze più o meno marcate, ma l’insieme costruisce una rappresentazione coerente e condivisa. Il dato quantitativo che più colpisce è la riuscita decodifica inter-individuale: allenando l’algoritmo su alcuni soggetti, era comunque possibile riconoscere il colore osservato da altri, con un’accuratezza significativa e ben al di sopra del caso. Non è un dettaglio da poco, se si considera che i colori testati erano ben 24, un numero sufficiente a mettere alla prova la risoluzione del metodo.
Il significato è chiaro: il rosso che guardo io e il rosso che guardi tu attivano mappe neurali sorprendentemente simili, fino al punto da permettere a una macchina di riconoscerlo nei cervelli di persone diverse. Ciò non risolve la questione dei qualia, la natura soggettiva della sensazione, che rimane fuori dalla portata degli strumenti scientifici. Ma mostra che sotto quell’esperienza privata si nasconde un codice fisiologico comune, una grammatica del colore che i nostri cervelli condividono. Se i dati saranno confermati, servirà ripensare i modelli di come il cervello costruisce l’esperienza visiva, e se reggerà alla verifica, questo studio segna un passaggio importante: ciò che per millenni è stato un enigma filosofico - il mio rosso è davvero il tuo rosso? - comincia a diventare una questione empirica.
Almeno a livello di cervello, l’organo dove costruiamo la percezione del mondo, il meccanismo attivato per ogni colore è molto simile in soggetti diversi; la base neurofisiologica per arrivare alla nostra personale sensazione è la stessa, ed è possibile che questo alla fine converga in un’esperienza del colore simile fra persone diverse. Le neuroscienze non hanno ancora accesso alla qualità della sensazione, ma hanno cominciato a disegnare mappe e a riconoscere regolarità. Non sappiamo se vediamo davvero lo stesso colore, ma ora sappiamo che i nostri cervelli, quando lo guardiamo, fanno la stessa cosa.



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