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Cattivi scienziati
“La scienza non è un dogma". Il populismo antiscientifico in una sola frase
Su vaccini e prevenzione non mancano né la quantità né la qualità delle prove. Il dissenso scientifico è possibile, ma si devono mostrare dati nuovi, migliori, capaci di spiegare ciò che la semplice percezione oppure ogni altra teoria alternativa spiegano peggio. Oltre il caso Nitag
“La scienza non è un dogma” è la tipica frase che viene agitata come una formula magica ogni volta che qualcuno pretende di far passare per discussione scientifica ciò che la scienza ha già accertato e archiviato. L’ultima ricorrenza è arrivata con la vicenda del Nitag: nel decreto del 6 agosto 2025 che rinnova il Gruppo tecnico consultivo nazionale sulle vaccinazioni sono stati inseriti, tra gli altri, Eugenio Serravalle e Paolo Bellavite, figure da anni associate a posizioni apertamente contrarie o gravemente fuorvianti sui vaccini. La reazione della comunità scientifica è stata unanime e immediata: società scientifiche, ordini professionali, Fondazione Gimbe, Patto per la Scienza, il Nobel Giorgio Parisi, i pazienti immunocompromessi e un’ampia petizione pubblica hanno chiesto il ritiro di quelle nomine; la stampa scientifica internazionale ai massimi livelli ha registrato il caso come un’anomalia pericolosa in un organo che dovrebbe fornire raccomandazioni basate sulle migliori evidenze disponibili. Non è una polemica di bandiera: è un richiamo alla funzione stessa del Nitag, che non è “bilanciare opinioni”, ma sintetizzare prove, pesare rischi e benefici, trasformare i dati in raccomandazioni praticabili per la salute pubblica.
In questo e in ogni altro contesto, dire che “la scienza non è un dogma” è vero, ma irrilevante e strumentale a una falsità, per il modo in cui viene usato in questi casi. In scienza “non dogmatico” non significa che ogni tesi meriti un seggio, bensì che nessuna tesi è sottratta alla possibilità di essere smentita da nuove e migliori prove. È la differenza tra fallibilismo e relativismo: il primo impone standard severi per accettare o rivedere una conclusione; il secondo abolisce gli standard fingendo di onorare il pluralismo. Popper parlava di congetture e confutazioni, non di tribune permanenti per ipotesi già confutate. Il mestiere della scienza è scartare sistematicamente le ipotesi false, non tenerle in frigorifero per “equilibrio delle parti”. Quando la frase diventa scudo retorico per riproporre idee che hanno già fallito i controlli elementari di coerenza, metodo e riscontro empirico, siamo fuori dal dominio della scienza e dentro una difesa ideologica.
Il punto operativo è semplice. Su vaccini e prevenzione non mancano né la quantità né la qualità delle prove: studi randomizzati, sorveglianza post-marketing su centinaia di milioni di dosi, valutazioni di sicurezza e di efficacia replicate in più contesti, con metodi diversi e coerenza dei risultati nel tempo. In un simile territorio, che è già denso di risultati convergenti, il dissenso scientifico è possibile, ma deve farsi carico di una responsabilità probatoria proporzionale: mostrare dati nuovi, migliori, capaci di spiegare ciò che la semplice percezione oppure ogni altra teoria alternativa spiegano peggio. Non basta l’opinione, non basta l’allusione ad aneddoti, non bastano slogan che confondono rischi rari e benefici collettivi. È precisamente qui che lo slogan “non è un dogma” viene speso come scorciatoia retorica: si invoca la fallibilità della scienza per insinuare che, poiché tutto è in linea di principio rivedibile, nulla è davvero affidabile. Ma tra “rivedibile” e “inaffidabile” c’è la stessa distanza che separa un ponte collaudato da una passerella di fortuna.
Questo abuso linguistico produce un danno istituzionale misurabile. Un organismo tecnico esiste per far valere criteri, non bandiere: competenza documentata nel campo specifico, assenza di posizioni pubbliche in palese conflitto con l’evidenza consolidata, disponibilità a correggersi quando le prove cambiano, e soprattutto attitudine a distinguere tra critica metodologicamente fondata e propaganda. Invece, si scambiano questi requisiti con il principio della “rappresentanza delle opinioni”, fraintendendo la natura stessa della consulenza scientifica, che non si fonda su una sorta di abominevole talk show. Addirittura, leggo commentatori che auspicano che vi siano rappresentanze di pseudoscienza in un organismo scientifico, perché, quando numericamente non possono nuocere, sarebbero un contentino a un’ipotetica fetta di popolazione antivaccinista – c’è che si spinge a dire il 15 o il 18 per cento della popolazione (ma quando mai!). Si tratta del modo di pensare tipico della politica, dell’organizzazione del consenso e delle riunioni di condominio: ma in realtà, un comitato tecnico non è un parlamentino, né uno strumento che deve soddisfare al principio di rappresentanza. È un filtro che protegge il decisore politico dall’arbitrio e dall’errore sistematico selezionando ciò che ha superato prove robuste. Nel caso Nitag questo filtro è stato forzato, e il segnale che arriva al pubblico è devastante: bisogna accordare diritto di rappresentanza a ogni opinione e a ogni tesa, perché “la scienza non è un dogma”.
Chi usa in questo modo la formula “la scienza non è un dogma” per legittimare tesi antivacciniste o il confronto con quelle confonde tre piani. Primo: la logica interna della scienza, che è anti-dogmatica perché subordina ogni affermazione alla prova e alla possibilità di errore. Secondo: lo stato delle conoscenze, che può essere più o meno stabile a seconda della quantità e qualità dei dati; in vaccinologia molte conclusioni sono oggi altamente stabili. Terzo: l’etica professionale, che impone di non promuovere attivamente tesi già smentite o gravemente fuorvianti, specie quando il pubblico può essere danneggiato dalla confusione. Ridurre tutto a una formula che pretende uguale dignità per ogni posizione non è “apertura mentale”, è soppressione dei criteri di qualità.
Un’ultima precisazione, che riguarda il senso comune: “non dogma” non equivale a “si riparte da zero ogni volta”. La scienza costruisce affidabilità cumulativa: risultati ripetuti, metodi replicabili, convergenza di fonti indipendenti, revisione critica continua. È proprio questa architettura che consente di dire, senza contraddizione, che siamo sempre pronti a correggere e, nel frattempo, pienamente autorizzati ad agire come se certe conclusioni fossero solide. Le campagne vaccinali non si fondano su decreti di fede, ma su questa affidabilità cumulativa. Mettere in un organo tecnico chi nega quel cumulo equivale a chiedere al controllore di spegnere la strumentazione in nome della “libertà di opinione”.
Il problema, dunque, non è la frase in sé, ma il suo uso come grimaldello per forzare istituzioni tecniche a ospitare il falso accanto al vero. La generalizzazione è chiara: quando la politica cede alla tentazione di neutralizzare la scienza trasformando i tavoli tecnici in arene di rappresentanza, il sistema di protezione della salute pubblica si indebolisce e le scelte tornano opache, perché i criteri scompaiono. L’implicazione a lungo termine è altrettanto netta: si crea un precedente per cui ogni verità scomoda può essere riequilibrata con una contro-verità presentata come “opinione alternativa” da rappresentare, e ogni standard può essere aggirato invocando l’anti-dogmatismo.
Tuttavia, la scienza davvero non è un dogma - ed è proprio per questo che non può essere ridotta a una sagra di opinioni in discussione. Contro quello che il direttore Cerasa ha chiamato “il virus populista in sanità”, il rimedio parte da un’azione semplice: il rifiuto dei vuoti slogan usati per propagarlo, a partire dalla maggiore fra le imbecillità sbandierate - “la scienza non è un dogma”.

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