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Cattivi scienziati
Quando l'integrità scientifica diventa un'arma
L’autocorrezione scientifica, pilastro della credibilità della ricerca, viene oggi distorta e usata per delegittimare l’intero sistema. Tra lentezze burocratiche e strumentalizzazioni politiche, servono riforme urgenti per proteggere chi denuncia e rafforzare la fiducia nella scienza
Da qualche tempo il richiamo all’integrità nella ricerca scientifica non serve più a rafforzarne la credibilità, ma è diventato un’arma per attaccarla, come denuncia adesso anche Nature. Esperti che hanno dedicato anni a individuare immagini duplicate, dati fabbricati e peer review fasulle, con l’unico obiettivo di rendere la letteratura più solida, vedono oggi i loro risultati strumentalizzati per sostenere che “tutta la scienza è marcia”. I casi più importanti di ritrattazioni e frodi denunciate, quelli cioè in cui si è arrivati alla scoperta e alla correzione e alla ritrattazione della produzione di interi laboratori fraudolenti, sono usati invece che come esempio della capacità della comunità scientifica di correggersi, come prova del suo marciume.
Quel che ha permesso questa strumentalizzazione non è tanto la scoperta dei difetti in sé, quanto la lentezza e l’inefficacia del processo di autocorrezione. Dopo la denuncia di un possibile problema di integrità ad una rivista o ad una istituzione, tempi di revisione che si contano in anni e comitati interni paralizzati dal timore di innescare scandali sono la norma. Spesso le segnalazioni restano intrappolate in un limbo burocratico, prive di scadenze certe e senza tutele reali per chi parla, finché un’eventuale ritrattazione o una reazione dell’istituzione interessata – se arriva – assume le sembianze di un processo infinito.
A questa lentezza si aggiunge la paura di esporsi. Ricordo ancora le accuse mosse contro di me quindici anni fa, quando sostenevo che fosse necessario mostrare e correggere le crepe degli articoli pubblicati, e non soltanto discutere di risultati “positivi”. All’epoca mi venne detto che denunciare avrebbe “fatto crollare la fiducia” nei confronti della scienza; fui isolato, attaccato per la mia attività, minacciato di denuncia e comunque stigmatizzato, temo ormai per sempre, come “mina vagante” dall’accademia. Così, molti colleghi hanno preferito e preferiscono chiudere gli occhi e lasciare correre, temendo ripercussioni sulla carriera o sui progetti in corso, salvo rivolgersi al sottoscritto o a pochi altri colleghi che fanno il mio mestiere. Questa omertà e questa paura hanno alimentato un clima di complicità: chi avrebbe potuto intervenire ha scelto di non farlo, lasciando intatto un apparato che chiama alla trasparenza, ma non tollera le conseguenze del tradurre tale richiamo in azione.
Appesantita da questa complicità, l’autocorrezione della scienza si è trasformata in un percorso ad ostacoli: segnalazioni che marciscono in commissioni interne, ritrattazioni procrastinate dalle riviste, documenti riservati che pochi leggono ed una generale accondiscendenza verso problemi anche gravi di integrità.
Allo stesso tempo, le riviste scientifiche mostrano una resistenza crescente a correggere tempestivamente gli errori: da un lato la perdita di immagine e la riduzione delle citazioni – accentuata da una recente modifica al calcolo dell’impact factor che penalizza i periodici con numerose ritrattazioni – e dall’altro il fatto che i comitati editoriali restano spesso giranti in solitudine di fronte alle minacce di azioni legali da parte di istituzioni o ricercatori coinvolti in frodi. Questa congiuntura rende ancora più improbabile che un articolo difettoso venga rettificato con rapidità, moltiplicando il potenziale di strumentalizzazione politica.
È a questo punto che, in Usa, è arrivata la mannaia politica: un ordine esecutivo che, pur promettendo di “ripristinare la scienza del più alto standard”, in realtà consegna ai decisori politici il potere di stabilire cosa sia scienza valida e cosa no. Con questo strumento, chi ricopre ruoli di governo può invocare rielaborazioni delle policy di integrità per giustificare la protezione di “opinioni scientifiche alternative” o per definire a proprio uso e consumo quali ricerche meritino sostegno.
In questo contesto, figure come Robert F. Kennedy Jr hanno assunto un ruolo emblematico. Durante l’udienza di conferma come segretario alla Sanità, ha citato la ritrattazione di una serie di studi sull’Alzheimer, a seguito di indagini cui io stesso ho contribuito, per sostenere che agenzie governative come NIH o FDA, e la comunità scientifica che le anima, avessero alimentato per vent’anni una “ipotesi fraudolenta”, sull’origine della malattia, collegando direttamente l’assenza di cure alla “corruzione” interna. Le sue dichiarazioni hanno distolto il dibattito dalla solida base delle prove a favore del ruolo della proteina amiloide nell’insorgere dell’Alzheimer, spostando l’attenzione sull’idea che l’intero bilancio dei finanziamenti federali fosse stato inquinato da intenti occulti. La preoccupazione degli “investigatori” dell’integrità scientifica è evidente: mentre continuano a puntare il dito sui paper difettosi con l’obiettivo di migliorare la scienza dall’interno, vedono crescere il rischio che i loro sforzi siano interpretati come un’autorizzazione a cancellare o ostacolare interi settori, e più in generale utilizzati come “prova avverso” la scienza.
Da questa distorsione occorre ripartire. Serve un meccanismo di autocorrezione agile, trasparente e quando serve punitivo nei modi opportuni. Le università devono istituire sportelli indipendenti per le segnalazioni, con regole chiare, anonimato garantito e tempi certi di risposta: un sistema in cui chi scopre un vizio metodologico possa sollevarlo senza doversi preparare alla battaglia burocratica. In Italia, un esempio esiste: è la commissione che ha istituito da molto tempo il Cnr, con cui collaboro direttamente, un modello che ha dato prova di funzionare meglio degli zoppicanti e discontinui tentativi universitari in molte occasioni.
Le riviste devono introdurre procedure snelle di errata corrige e ritrattazione, accompagnate da spiegazioni oneste e non inquisitorie, affinché il lettore comprenda cosa è successo senza dietrologie; bisogna costringerle, segnalando i casi in cui non correggono (e succede persino quando sono gli autori a chiedere di ritrattare), e agendo di conseguenza nella scelta delle riviste cui sottoporre i propri manoscritti per la pubblicazione. Naturalmente, è ora di esigere che i comitati editoriali siano protetti dalle aziende che possiedono la rivista, senza dover impegnare risorse proprie e subire minacce dirette come accade fin troppo spesso, quando gli imbroglioni si difendono con vivacità.
I finanziatori pubblici devono vincolare le erogazioni all’effettiva adozione di policy di trasparenza delle istituzioni, tutelando l’autonomia dei ricercatori, ma al contempo registrando la buona aderenza di università e laboratori agli standard richiesti, proprio in occasione di ritrattazioni e correzioni, che devono essere meritorie, quando richieste dagli autori che hanno pubblicato, invece di essere uno stigma (naturalmente in assenza di problemi ulteriori e soprattutto differenziando chi fra gli autori denuncia e chi ha commesso frode).
Solo riportando l’autocorrezione della scienza al suo valore di tappa necessaria – anziché di scandalo da occultare – potremo togliere ai demagoghi politici la materia prima per costruire la loro offensiva anti‑scienza. L’autocorrezione dovrà tornare a essere percepita come un vantaggio epistemologico competitivo, non come un rischio da evitare: perché un sistema che non teme di mettere a nudo le proprie fragilità è l’unico in grado di progredire. È da qui che deve ricominciare la vera difesa della ricerca: non proteggendo l’immagine di questo o quel ricercatore, ma instaurando un’autentica cultura della prova, in cui mostrare le crepe significa poter andare avanti meglio.

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