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Cattivi scienziati

È assurdo che la libertà della scienza venga difesa dall'autorità religiosa e non dalle istituzioni laiche

Enrico Bucci

Un documento diffuso dalla Pontificia Accademia delle scienze affronta le minacce attuali all'autonomia della scienza riconducendole a un indebolimento dei principi fondamentali su cui si fonda il sapere moderno. Colpisce – in confronto – il silenzio delle grandi organizzazioni scientifiche laiche

È un fatto degno di nota, e non meno che sconcertante, che la più chiara e articolata difesa della libertà scientifica in una congiuntura di crescenti pressioni politiche non sia giunta da una delle grandi istituzioni scientifiche laiche, ma da una voce insospettabile: quella della Pontificia Accademia delle Scienze. Il documento diffuso dall’Accademia non si limita a generiche esortazioni alla difesa del sapere, ma affronta in modo diretto e sistemico le minacce attuali all’autonomia della scienza, riconducendole a un più ampio indebolimento dei principi fondamentali su cui si fonda il sapere moderno: la libertà di indagine, la trasparenza del processo di revisione, l’indipendenza delle istituzioni accademiche, la necessità di un confronto aperto fra pari. Tutti elementi che non sono meri dettagli procedurali, ma condizioni strutturali per il funzionamento stesso del metodo scientifico e per la possibilità che esso produca conoscenza affidabile.

Colpisce, al confronto, il silenzio o la prudenza eccessiva delle grandi organizzazioni scientifiche laiche, tanto più se si considera che molte di esse sono nate esattamente per questo: per difendere la scienza come bene comune, come infrastruttura razionale delle decisioni collettive, come spazio pubblico di verità criticabile. Un esempio emblematico è rappresentato dall’InterAcademy Partnership (IAP), che conosco bene per averci collaborato in passato. È una rete globale che raccoglie oltre 140 accademie nazionali di scienze, medicina e ingegneria, tra cui i nostri Lincei, e che si propone esplicitamente di promuovere una voce unitaria della comunità scientifica a livello mondiale, capace di interagire con i governi e con le istituzioni multilaterali in nome dell’evidenza e dell’interesse collettivo. In questa funzione, la IAP non è un organismo tecnico neutrale, ma un soggetto politico nel senso più alto del termine: rappresenta, o dovrebbe rappresentare, l’autonomia epistemica delle istituzioni scientifiche di fronte al potere politico ed economico.

Eppure, proprio nei mesi in cui si sono moltiplicati gli episodi di censura, i tagli retroattivi a progetti approvati, le modifiche ideologiche ai criteri di finanziamento, e l’uso intimidatorio della revisione amministrativa per colpire ricercatori sgraditi, la IAP ha scelto di non intervenire. Né una dichiarazione pubblica né una presa di posizione condivisa è stata prodotta in risposta a eventi che, per entità e sistematicità, rappresentano una delle più gravi offensive alla libertà scientifica nell’ambito delle democrazie occidentali dell’ultimo mezzo secolo. La stessa assenza si è registrata in molte accademie nazionali che, pur vantando statuti e missioni incentrate sulla difesa della scienza come fondamento della società aperta, hanno preferito non compromettersi. Non si tratta, in questi casi, di una semplice reticenza, ma di un fenomeno più profondo: un disallineamento fra il mandato istituzionale e il comportamento effettivo, che rivela quanto le strutture accademiche siano oggi vulnerabili alle pressioni esterne, e quanto il loro ruolo pubblico sia indebolito da logiche di cooptazione politica, di dipendenza finanziaria o di autocensura strategica.

In questo scenario, il fatto che una presa di posizione netta provenga da un’istituzione diretta emanazione di un’autorità religiosa, e precisamente da un’accademia ospitata all’interno di uno Stato confessionale, assume un significato tutt’altro che paradossale. È proprio la Pontificia Accademia, la cui identità potrebbe far pensare a una subordinazione della scienza a fini teologici, a ribadire con maggiore chiarezza ciò che molte istituzioni laiche non osano più dire: che la scienza ha bisogno di libertà, non solo perché produce conoscenza, ma perché rende possibile il dissenso informato, la correzione degli errori, la responsabilità critica delle decisioni. In tal senso, la laicità che l’Accademia esprime non è quella formale dell’indipendenza dallo Stato o dalle religioni, ma quella sostanziale della fedeltà al metodo razionale, dell’adesione al principio che nessuna verità può essere imposta dall’alto, e che ogni affermazione deve essere sottoposta a verifica e discussione pubblica.

È difficile non vedere, in questo ribaltamento delle parti, una lezione più ampia. La crisi della scienza non consiste solo negli attacchi espliciti che essa subisce da parte del potere politico o economico, ma nella debolezza delle sue difese interne. Quando chi dovrebbe parlare tace, quando chi dovrebbe garantire l’autonomia si allinea, quando chi dovrebbe rappresentare la voce della razionalità collettiva preferisce il compromesso, è allora che si apre lo spazio perché siano altri, fuori dal perimetro tradizionale della scienza istituzionalizzata, a difenderne i principi fondamentali. Che questo ruolo venga oggi assunto da una voce religiosa può sembrare inatteso, ma ciò che sorprende davvero non è chi ha parlato, bensì chi ha scelto di non farlo.

Vogliamo davvero che l’unica voce che si leva con chiarezza in difesa della laicità, indipendenza e libertà della scienza sia quella di chi per secoli ha minacciato di portare gli scienziati sul rogo?