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Cattivi scienziati
A cosa serve davvero un PhD?
Bisogna correggere l'idea sbagliata che l'unico esito legittimo del dottorato sia diventare professore. La vera forza del dottorato sta nel formare persone capaci di vedere ciò che non si vede ancora, di reggere la pressione del dubbio senza cedere alla semplificazione. Serve una società che non sottovaluti le proprie risorse
Il dottorato è uno degli strumenti più raffinati di formazione intellettuale che una società possa mettere in campo. Eppure, da anni, viene trattato come un equivoco da sanare: o perché troppi lo prendono senza diventare professori, o perché troppo pochi riescono a farne una carriera. In entrambi i casi, la logica è la stessa: un binarismo sterile tra successo accademico e fallimento professionale. Un articolo uscito su Nature rilancia questo nodo con i numeri alla mano: nella maggior parte dei Paesi industrializzati, la quota di PhD che resta nel mondo universitario è ormai una minoranza. In Sudafrica, ad esempio, quasi un dottore su cinque finisce per lavorare in ambiti del tutto sganciati dalla sua formazione. Nel Regno Unito, più dei due terzi sono occupati fuori dall’università. E non si tratta solo di discipline umanistiche o sociali: il trend riguarda anche scienze dure, ingegneria, biologia.
Ma la notizia più interessante non è questa. È che, nonostante tutto, oltre il 90% dei PhD intervistati dichiara di essere soddisfatto del proprio lavoro. Questo fatto, che sembra contraddire l’allarme, è in realtà la chiave per uscire dal vicolo cieco: ciò che bisogna correggere non è il numero dei dottori di ricerca, ma l’idea sbagliata che l’unico esito legittimo di un PhD sia diventare professore. È un residuo culturale tossico, alimentato sia dalle università che da certe retoriche politiche, secondo cui o si resta nella "torre d’avorio" o si è fallito. È il contrario. Lo scopo di un dottorato non è garantire un posto in cattedra, ma insegnare a pensare in profondità, ad argomentare in modo solido, a lavorare con pazienza e metodo su problemi complessi e non immediatamente risolvibili. Chi ha fatto un buon dottorato – indipendentemente dal campo – si porta dietro un vantaggio cognitivo che nessun altro percorso formativo conferisce in modo così sistematico: l’abitudine a produrre conoscenza originale, a dubitare senza perdersi, a costruire ragionamenti verificabili, a distinguere tra fatti, interpretazioni e desideri. Non è poco.
Io stesso ne sono la prova. Non ho seguito un percorso accademico tradizionale e ho scelto, piuttosto presto, di uscire dal circuito universitario. Ma non ho mai smesso di fare ricerca, di fondare nuove iniziative, di scrivere e di confrontarmi pubblicamente sui temi che contano. Il mio lavoro quotidiano – dall’analisi dell’integrità della ricerca scientifica, alle inchieste sui dati truccati, ai progetti educativi – sarebbe impensabile senza la struttura mentale che il dottorato mi ha dato. E non parlo di “competenze trasferibili”, quella formula aziendalista che ormai dilaga anche nel mondo accademico, come se la ricerca servisse solo a imparare a usare Excel, a gestire progetti, a "problem solving". Dobbiamo finirla con questa caricatura.
L’ossessione per le competenze trasferibili è figlia di una resa culturale. È l’idea, ormai interiorizzata, che per giustificare l’esistenza del sapere serva dimostrarne l’utilità immediata sul mercato. Ma la vera forza del dottorato è un’altra: sta nel formare persone capaci di vedere ciò che non si vede ancora, di smontare le premesse implicite di un discorso dominante, di reggere la pressione del dubbio senza cedere alla semplificazione. Chi ha fatto un PhD sa leggere un articolo scientifico con occhio critico, smascherare una fallacia logica in una discussione pubblica, costruire da zero una linea d’indagine. Questo è il vero know-how. Non è “trasferibile” perché non è una tecnica, ma una forma mentis. E se il mondo extra-accademico non sa come usarla, il problema non è del dottore di ricerca, ma della società che non riesce più a riconoscere il valore di chi sa pensare con metodo, rigore e libertà.
E vale per tutte le discipline, comprese – anzi, a maggior ragione – quelle umanistiche. Perché se è vero che nel discorso pubblico si tende a considerare “utili” solo i dottorati in ambito scientifico o tecnico, è proprio in questa rimozione che si manifesta la miopia culturale più profonda. Un PhD in filosofia, in filologia, in storia o in teoria della letteratura non serve meno: serve diversamente. Serve perché allena a vedere i nessi tra linguaggi, a interpretare sistemi simbolici, a comprendere le genealogie delle idee, a leggere le strutture profonde dei conflitti. Serve perché offre le lenti per comprendere ciò che una cultura non sa di sé. E se tutto questo non viene considerato "utile", allora è il concetto stesso di utilità che va riformulato. Il pensiero critico non è un optional, e meno ancora un lusso per chi se lo può permettere: è l’ossatura di ogni cittadinanza che voglia essere libera e consapevole.
Non si tratta di chiedere riconoscimento per il sapere in quanto tale, né di invocare rispetto per il “pensiero” contro il “mercato”. Questo tipo di retorica, oltre a essere inefficace, scivola troppo facilmente nel vittimismo. Il punto, più solido e urgente, è un altro: una società che investe nel dottorato e poi non sa trarne vantaggio non ha solo un problema etico o culturale, ma strategico. Sta sprecando risorse che ha già formato al massimo livello, rinunciando a usarle nel momento in cui potrebbero contribuire concretamente ad affrontare le crisi più complesse – tecnologiche, ambientali, sociali – proprio nel momento in cui servirebbe una visione più articolata e meno appiattita sull’immediato.
Un dottore di ricerca non è utile perché “sa tante cose” o perché “merita un posto”, ma perché ha attraversato, se la formazione è stata seria, un processo di raffinazione cognitiva che lo rende capace di affrontare problemi mal definiti, ambigui, non risolvibili per tentativi. È formato a costruire domande prima che soluzioni, a smontare automatismi mentali, a riconoscere pattern e fallacie dove altri vedono solo rumore. Eppure, nel modo in cui oggi strutturiamo il mercato del lavoro, soprattutto in Italia dove formiamo tra i PhD migliori al mpondo, queste abilità vengono ignorate, mal interpretate, o addirittura scartate in quanto "non spendibili". È come se un paese investisse decenni nella creazione di strumenti di precisione, e poi si ostinasse a usarli come fossero paletti da giardino.
Questo cortocircuito non nasce da malafede, ma da una rigidità sistemica: abbiamo costruito e spingiamo sempre di più verso una cultura della professionalità in cui ciò che conta è ciò che è codificabile, certificabile, standardizzabile, anche a prezzo di inventare indicatori numerici inutili, inadatti, persino fuorvianti (vedi cosa accade per esempio nella scuola o in ANVUR). Tutto il resto – capacità analitica, profondità concettuale, pensiero controintuitivo – non rientra in ciò che è richiesto. Il dottorato, per come è oggi, non si adatta facilmente a queste griglie, e invece di aggiornare le griglie, si chiede al dottorato di cambiare.
Eppure, in molti ambiti privati, si comincia a vedere che qualcosa non torna. Le aziende più avanzate – non necessariamente le più grandi, ma anche alcune di quelle – hanno cominciato a cercare profili non convenzionali: non solo per “diversity”, ma perché sanno che la competizione non si gioca più solo sull’efficienza, bensì sulla capacità di anticipare ciò che gli altri non vedono ancora. Questo significa che la figura del PhD non ha bisogno di legittimazioni simboliche, ma di contesti concreti in cui il suo modo di ragionare sia compreso, messo alla prova e valorizzato. Non per principio, ma per convenienza.
Cambiare il mercato del lavoro, allora, non vuol dire insegnargli a rispettare l’“intellettuale”, ma fargli capire che sta trascurando una risorsa già formata, già pagata, già pronta – e che può fare la differenza proprio dove l’automatismo non basta più. Significa correggere un errore di progettazione. Significa riconoscere che non si tratta di “adattare i PhD al lavoro”, ma di permettere al lavoro di diventare qualcosa di più intelligente, più lungimirante, più capace di futuro. Se non altro, per puro interesse.
In questo senso, non è il PhD che va ripensato per aderire al mercato. È il mercato – e con esso le istituzioni, la pubblica amministrazione, l’editoria, la comunicazione, la consulenza, la politica – che dovrebbe riallinearsi all’altezza di chi è stato formato per ragionare senza scorciatoie. Non ci serve un dottorato “più utile”. Ci serve una società che capisca perché è utile ciò che tiene viva la possibilità stessa di una discussione intelligente sulle cose del mondo. Se questo ancora ci interessa, prima che altri più bravi a capirlo, come accade in Cina o in India, prendano il nostro posto.


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