Foto di Marcelo Leal su Unsplash

Cattivi scienziati

Perché la detrazione fiscale dei farmaci omeopatici è contraria ai principi della Costituzione

Enrico Bucci

Il diritto alla salute, per essere effettivamente protetto, richiede di essere declinato attraverso strumenti dotati di validità epistemica, ossia verificabili secondo criteri oggettivi. Non è il caso dell'omeopatia

In uno stato costituzionale, il Parlamento non è sovrano in senso assoluto. La sua libertà di determinarsi incontra un limite preciso: la conformità delle sue decisioni ai principi costituzionali. E tra questi, quando si parla di interesse della collettività alla tutela della salute, uno è ineludibile: il principio di ragionevolezza, fondata sul sapere scientifico e non sull’opinione o sulla pressione sociale. Il diritto alla salute, riconosciuto come fondamentale dalla Costituzione, non può essere tutelato con strumenti arbitrari o inefficaci, perché ciò equivarrebbe a negarlo nella sostanza, pur proclamandolo nella forma.

L’idea che “il Parlamento possa deliberare ciò che vuole, se lo decide a maggioranza”, è incompatibile con la natura stessa dell’ordinamento costituzionale. Il diritto alla salute, in particolare, è uno di quei diritti che, per essere effettivamente protetto, richiede di essere declinato attraverso strumenti dotati di validità epistemica, ossia verificabili secondo criteri oggettivi. Non basta la volontà politica, serve la giustificazione fondata. Ed è proprio questo il compito che la Costituzione assegna all’azione pubblica: non quello di assecondare ogni estemporanea pulsione, ma di selezionare — con responsabilità — i mezzi adeguati alla tutela dei bisogni essenziali dell’individuo e della collettività.

La detraibilità fiscale dei cosiddetti medicinali omeopatici è un esempio perfetto di deroga ingiustificabile al principio di ragionevolezza e, implicitamente, al diritto alla tutela della salute. Non ci si trova davanti a una semplice libertà di consumo individuale: quella nessuno la mette in discussione. Il problema si pone nel momento in cui lo stato, attraverso un beneficio fiscale, riconosce valore pubblico — e quindi razionalità normativa — a una pratica che ne è priva, secondo i criteri stessi che regolano l’ammissione delle terapie nel sistema sanitario. Non è possibile pretendere rigore scientifico per l’inclusione di certe prestazioni nei Livelli Essenziali di Assistenza e, al tempo stesso, ammettere a detrazione pratiche che non superano neppure il criterio della plausibilità empirica. Una tale incoerenza normativa mina non solo la giustizia distributiva, ma incide sulla legittimazione dell’azione pubblica in campo sanitario.

La giurisprudenza costituzionale e la riflessione teorica più consapevole convergono nel ritenere che la garanzia dei diritti fondamentali non può prescindere dal contesto culturale e cognitivo entro cui essi si applicano, e in questo contesto la scienza non è un elemento accessorio, ma una fonte che il diritto recepisce e diventa, dunque, normativa materiale. Questo non implica che le leggi debbano essere scritte dagli scienziati, bensì che la scienza deve fornire il substrato essenziale ed ineliminabile sulla base del quale il legislatore deve assumere le sue determinazioni. Nessun diritto è realmente garantito se i mezzi con cui si pretende di tutelarlo si avvalgono di opzioni volubili ed irragionevoli, e, particolarmente, nel caso della salute della collettività senza un reale fondamento scientifico. A maggior ragione, nessuna spesa pubblica può andare in contrasto con il principio di economicità che implica il minor dispendio possibile di risorse pubbliche, evitando sprechi e assicurando un uso razionale delle risorse (art. 1 L. 241/1990) in ottemperanza al principio del buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione, come avverrebbe, invece, ignorando i suggerimenti della scienza.

Ciò vale ancor più nei momenti in cui il contesto è segnato da crisi sanitarie, disinformazione, pressioni commerciali. In questi casi lo Stato ha il dovere, non la facoltà, di selezionare e promuovere solo ciò che risponde ai requisiti minimi di scientificità, proprio per evitare che il linguaggio dei diritti venga stravolto e che la finzione di una cura sostituisca la responsabilità dell’intervento pubblico. Il principio costituzionale in gioco non è solo quello della legalità formale, ma quello più alto e sostanziale della massima tutela effettiva dei diritti, che non può prescindere dal sapere tecnico, e che si degrada quando si confondono le convinzioni soggettive con i presupposti oggettivi della tutela.

Invocare la maggioranza per giustificare la detraibilità dell’omeopatia, in questo quadro, non è un argomento democratico, ma una forma di deresponsabilizzazione istituzionale. Nessuna libertà politica giustifica l’adozione di misure pubbliche che contraddicono lo scopo stesso per cui quella libertà è stata riconosciuta. La libertà di rappresentanza non autorizza la negazione del principio di verità nelle politiche sanitarie. E uno Stato che smette di distinguere tra terapia e illusione, tra efficacia e suggestione, non esercita più un potere pubblico in senso costituzionale: cede all’arbitrio, travestito da pluralismo.

Rendere detraibile l’omeopatia non è dunque una scelta neutra né una concessione innocente alla libertà individuale. È un cedimento grave, e pericoloso, alla dissoluzione del criterio di razionalità pubblica, che è l’architrave della tutela costituzionale della salute. Chi lo difende in nome della libertà, nega in realtà la sostanza della libertà stessa: quella che si esercita in uno spazio pubblico ordinato dal sapere, dalla responsabilità, e dalla cura autentica.

Di più su questi argomenti: