(foto EPA)

cattivi scienziati

Uno studio sull'uso delle mascherine che in molti non hanno capito

Enrico Bucci

Una metanalisi pubblicata dall'associazione Cochraine sull'uso delle mascherine per contrastare la diffusione di SARS-CoV-2 ha dimostrato di avere molti limiti. Ma non quelli di cui l'hanno accusata i suoi detrattori

Quando l’associazione Cochrane pubblica una metanalisi, o quando aggiorna i risultati di una metanalisi alla luce di nuovi studi, il risultato che si ottiene in genere è della massima importanza, considerando il metodo altamente standardizzato e trasparente con cui le valutazioni sono condotte. In linea di principio, queste metanalisi costituiscono il massimo che sia possibile fare per valutare, nel loro insieme, qualità e quantità delle prove a favore di un certo intervento medico, e per questo, da quando esistono, hanno fortemente influenzato la politica sanitaria. Ora, il 30 gennaio scorso è stato pubblicato un aggiornamento di una particolare metanalisi dedicata ai mezzi fisici per impedire o ridurre la propagazione dei virus respiratori.

 

Questo aggiornamento ha causato un profluvio di dichiarazioni non solo da parte di luddisti ed oppositori vari del pensiero scientifico, ma persino da componenti di rilievo della comunità accademica, il cui succo potrebbe essere riassunto così: le mascherine facciali, incluse quello di grado N95/P2, non servono per combattere i virus respiratori, e particolarmente non servono e non sono servite per contrastare la diffusione di SARS-CoV-2. Dunque – questo il pensiero di chi vede la mascherina come una museruola – esse sono state imposte senza una reale evidenza scientifica, sulla base di un pensiero superstizioso, a voler essere benevoli, o di una deliberata volontà di oppressione, per i più estremisti fra questi pensatori. Questi pensatori, già nel momento in cui esplosero nelle loro dichiarazioni, non si erano minimamente fermati a riflettere approfonditamente su dati, metodologia e livello di solidità delle conclusioni del lavoro in questione; nonostante gli stessi autori dichiarassero che “l'alto rischio di bias negli studi, la variabilità nella misurazione dei risultati e l'aderenza relativamente bassa agli interventi durante gli studi ostacolano il trarre conclusioni definitive”, per i pensatori di cui sopra la questione di principio era dimostrare la propria ragione e il torto di tutti gli altri, e non vedevano altro che un’occasione di rivalsa laddove sarebbe stato invece necessario fermarsi a riflettere con attenzione.

 

In effetti, la grandissima parte della comunità scientifica, tra cui il sottoscritto, avevano già avvisato non solo di tutti i caveat posti dagli stessi autori, ma anche e soprattutto dei numerosi problemi di fondo nel metodo e nel merito dell’analisi; problemi così rilevanti che per esempio Richard Ellison III, professore di Medicina, Microbiologia e Sistemi Fisiologici presso la Divisione di Malattie Infettive e Immunologia della University of Massachusetts Medical School, nonché passato editor in chief del New England Journal of Medicine, si era spinto a dichiarare che “la revisione Cochrane potrebbe essere interpretata al massimo nel senso che dimostra che le maschere non forniscono protezione quando non sono indossate”.

 

A chiarire definitivamente la questione ci ha pensato Karla Soares-Weiser, editor in chief della Cochrane Library, che a nome dell’associaizone ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Molti commentatori hanno affermato che una Cochrane Review recentemente aggiornata mostra che "le maschere non funzionano", il che è un'interpretazione imprecisa e fuorviante. Sarebbe corretto affermare che la revisione ha esaminato se gli interventi per promuovere l'uso della maschera aiutano a rallentare la diffusione dei virus respiratori e che i risultati sono stati inconcludenti. Dati i limiti delle prove primarie, la revisione non è in grado di affrontare la questione se l'uso della mascherina in sé riduca il rischio delle persone di contrarre o diffondere virus respiratori. Gli autori della revisione sono chiari sui limiti dell'abstract: "L'alto rischio di parzialità negli studi, la variazione nella misurazione dei risultati e l'aderenza relativamente bassa agli interventi durante gli studi ostacolano il trarre conclusioni definitive".  […] Il riassunto originale in linguaggio semplice per questa recensione affermava che "siamo incerti se indossare maschere o respiratori N95/P2 aiuti a rallentare la diffusione dei virus respiratori sulla base degli studi che abbiamo valutato". Questa formulazione era suscettibile di interpretazione errata, per la quale ci scusiamo. Sebbene le prove scientifiche non siano mai immuni da interpretazioni errate, ci assumiamo la responsabilità di non aver reso la formulazione più chiara fin dall'inizio. Stiamo collaborando con gli autori della revisione con l'obiettivo di aggiornare il riepilogo e l'abstract in linguaggio semplice per chiarire che la revisione ha esaminato se gli interventi per promuovere l'uso della maschera aiutano a rallentare la diffusione dei virus respiratori.”

 

In sostanza, si dice: guardate che la revisione ha al massimo valutato, senza ottenere evidenze definitive, se le politiche per indurre l’adozione delle mascherine hanno funzionato nel bloccare il virus, senza però poter dire nulla del funzionamento delle mascherine, visto che non è possibile dai dati stimare l’aderenza a tali politiche. Per giunta, nemmeno del funzionamento degli interventi di promozione delle mascherine si può dire gran che, perché gli studi collezionati sono talmente difformi in quanto a metodi e possibili confondenti, che il risultato finale della metanalisi non è affidabile.

 

Ora, per dire la verità, se una mascherina funziona o non funziona lo si valuta con apposite prove di laboratorio, non certo con dati epidemiologici: allo stesso modo in cui per sapere se un ombrello ripara dalla pioggia non si fa uno studio di popolazione, così per sapere se le caratteristiche fisiche di un dispositivo siano tali da bloccare un virus non si ricorre ad una metanalisi di studi epidemiologici. Chi pretende metanalisi di studi randomizzati per cose come l’efficacia di una barriera fisica, dovrebbe rendersi conto che con questo approccio non si va molto lontani: sarebbe come richiedere una metanalisi per sapere se un termosifone riscalda. Le metanalisi – e gli studi randomizzati ancor prima – dovrebbero essere utilmente impiegati per quei casi in cui il sistema sotto indagine ha una variabilità talmente elevata, per ragioni intrinseche, che l’efficacia di una procedura non si può esaminare se non statisticamente, come avviene per quel che riguarda l’azione di un farmaco su un sistema vivente: la statistica è cioè indispensabile quando non è possibile ricorrere alla replica sperimentale in un laboratorio per rispondere ad un quesito particolare.

Nel caso di specie, la metanalisi ci può aiutare a dire, per esempio, che nonostante le mascherine siano un’eccellente barriera all’infezione, esse sono poco o molto efficaci a causa dell’aderenza della popolazione al corretto uso, oppure in presenza di limiti derivanti dalla realtà dei comportamenti umani; non se una mascherina funziona o meno nel filtrare un virus. Altrimenti, la prossima volta si chiederà uno studio controllato e randomizzato per stabilire l’utilità di un paracadute dopo il lancio da un aereo.

Di più su questi argomenti: