cattivi scienziati
Le ondate di Covid-19 non sono ancora stagionali. Ecco perché
Se le riprese epidemiologiche di Sars-Cov-2 fossero periodiche, fronteggiarle sarebbe più semplice. Ma la diffusione di Omicron durante l’anno in corso testimonia che questa possibilità è lontana
Nei prossimi mesi, continueremo a notare riprese epidemiologiche di SARS-CoV-2 causate da nuove varianti.
Se queste ondate fossero stagionali, ovvero se occorressero con una periodicità temporale prevedibile (esistono virus che hanno picchi biennali o su tempi anche maggiori), la risposta ad esse sarebbe agevolata, sia perché si limiterebbe a un tempo specifico eventuali misure eccezionali, sia perché si riuscirebbe a pianificare con maggior efficienza le campagne vaccinali, sia infine perché la stessa regolarità nel presentarsi di un fattore di rischio contribuisce a normalizzare il rapporto psicologico che le persone hanno con esso, abituandole alla sua esistenza e auspicabilmente ad adottare comportamenti consapevoli. Eppure, nonostante vi sia stato chi aveva abbondantemente salutato l’avvenuta stagionalizzazione della pandemia di SARS-CoV-2, la diffusione di Omicron durante l’anno in corso ha dato la prova che per questo virus siamo ancora ben lungi da un andamento epidemiologico regolare nel tempo.
Ma come mai fattori come il diverso comportamento umano d’estate e d’inverno, nonché la diversa suscettibilità delle mucose respiratorie all’infezione durante queste stagioni, non si sono dimostrate fattori sufficienti a condizionare la traiettoria epidemiologica di SARS-CoV-2? La risposta, come sempre, sta nel modo in cui i virus evolvono. Per capire perché, consideriamo due possibilità estreme: la prima, che l’evoluzione di un virus sia limitata dal suo tasso di mutazione, e la seconda che sia invece limitata dalla selezione.
Nella prima ipotesi, esistono una serie di mutazioni vantaggiose per il virus in qualunque condizione, quali quelle, per esempio, che consentono una maggiore infettività o una maggiore trasmissibilità, cambiano cioè l’epidemiologia del virus, oppure mutazioni che generano virus con altri tipi di vantaggio competitivo che non influenzano direttamente i parametri epidemiologici, quali mutazioni legate alla competizione tra ceppi diversi all’interno di un ospite o di una cellula infetta. Poiché ogni mutazione può essere acquisita solo in maniera casuale, più ampia è la popolazione virale circolante, maggiore sarà la probabilità che emergano nuove varianti avvantaggiate su quelle che stanno infettando una popolazione ospite in un dato momento.
La seconda ipotesi presuppone che durante un’epidemia la popolazione virale sia sempre sufficientemente numerosa da garantire una buona probabilità che si manifesti un mutante che elude la risposta immunitaria dell’ospite. Se il mutante è in grado di soppiantare le varianti precedenti dipende dalle condizioni di selezione immunitaria presenti al momento in cui emerge: ove le varianti iniziali siano solo all’inizio dell’invasione, e quindi la popolazione sia poco immune ad essa, il vantaggio competitivo dei nuovi mutanti immunoevasivi sarà poco pronunciato, mentre se la mutazione di rilievo emerge quando l’immunità alle precedenti varianti è già ben diffusa, allora il vantaggio sarà notevole ed il nuovo mutante riuscirà probabilmente ad invadere la popolazione ospite.
Ora, nel primo caso la probabilità che una nuova variante emerga è massima durante un’ondata epidemica, perché in quel momento si ha il massimo numero di individui infetti e dunque la massima probabilità per una mutazione di avvenire. Mutazioni che conferiscono un vantaggio competitivo non legato alla selezione del nostro sistema immune, dunque, emergeranno soprattutto quando vi è ampia circolazione virale. Nel secondo caso, invece, il vantaggio per una nuova variante immunoevasiva è massima quando le precedenti sono tenute a bada da un’estesa immunità di popolazione, ovvero ben dopo che l’ondata epidemica da quelle causata sia trascorsa. Non solo: siccome poi l’immunità naturale decade nel tempo, questo vantaggio si eroderà, tornando a favorire le varianti del primo tipo illustrato e rendendo inessenziali le mutazioni che conferiscono immunoevasività.
La realtà, naturalmente, è che nell’evoluzione di SARS-CoV-2 sono all’opera entrambi gli scenari: all’inizio, in assenza di immunità di popolazione, avevamo solo il primo, ma oggi varianti come Omicron emergono dopo precedenti, ampie ondate, sfruttando il vantaggio conferito dall’immunoevasione in presenza di un’immunità di popolazione quando questa è massima. Senza nemmeno considerare ulteriori fattori di complessità, quali la disomogeneità geografica e vaccinale che si osservano a scala mondiale, quanto abbiamo illustrato basta a dimostrare come, nella fase attuale, la stagionalità è un accidente, e nulla più.
Ma allora, come mai esistono dei virus davvero stagionali? Intanto esistono virus respiratori che circolano senza nessuna stagionalità; per quelli ove si osserva questa caratteristica, la risposta sta nella loro velocità di mutazione e nella velocità di decadimento della nostra immunità verso di essi, sia che si tratti di immunità naturale che indotta da una vaccinazione, oltre che nella propagazione molto rapida e omogenea di poche varianti su un intero emisfero. La nostra immunità all’infezione da SARS-CoV-2 dura pochi mesi, e inoltre, per il momento, è raggiunta in modo molto asincrono ai quattro angoli del globo; dunque, per il momento l’epidemia probabilmente manterrà un andamento caotico, con più ondate durante alcuni anni e meno in altri.
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