Non solo social. I rischi del virus comunicativo diffuso anche dagli scienziati

Enrico Bucci

Il mondo accademico e scientifico si è ritrovato in questa pandemia al centro di un'attenzione mai avuta prima. E la mancata percezione degli effetti che le proprie dichiarazioni possono avere sul pubblico può creare qualche malinteso

Uno degli aspetti più evidenti durante la pandemia comunicativa che sta accompagnando quella virale è la mancata percezione da parte dei ricercatori degli effetti che le proprie dichiarazioni possono avere sul pubblico, ivi inclusi i malati e i decisori politici. Non si tratta, come si potrebbe pensare, semplicemente della comunicazione svolta via social media, canali televisivi o giornali: io vorrei qui riferirmi anche e soprattutto alla comunicazione che gli scienziati fanno attraverso le pubblicazioni scientifiche e i connessi comunicati stampa delle istituzioni scientifiche che la rilanciano. Non si tratta affatto di censurare o indirizzare le pubblicazioni di risultati scientifici sperimentali, quanto piuttosto di considerare il ruolo e l’effetto che hanno le pubblicazioni di ipotesi e discussioni ancora aperte, in una situazione di emergenza, in cui le conseguenze – positive o negative che siano – sono immediate.

  

Facciamo qualche esempio: a marzo, su alcune importanti riviste scientifiche si è svolta una discussione che aveva come argomento il ruolo – positivo o negativo – assunto da una delle più usate categorie di farmaci, quella degli Ace-inibitori. Ricordiamo che il virus Sars-CoV-2 entra nelle nostre cellule proprio legandosi ad un recettore Ace (il recettore Ace2). Ovviamente, i ricercatori si sono immediatamente interrogati sul fatto che farmaci in grado di legare potenzialmente il recettore del virus e anche di modificarne la quantità nel nostro organismo potessero interferire – in bene o in male – con il virus. Tuttavia, questa discussione non è avvenuta al chiuso delle accademie, o sui canali riservati della comunicazione telematica; si è tradotta invece immediatamente in una serie di pubblicazioni che ponevano il dubbio di effetti negativi degli Ace inibitori su riviste di medicina di primissimo piano. Ora, in tempi normali la discussione scientifica si è spesso svolta su riviste scientifiche; ma cosa succede quando siamo in emergenza, e invece di assumere sobrietà comunicativa, i ricercatori espongono per iscritto su riviste importanti le loro credenze (non ancora supportate da dati) circa il ruolo di farmaci salvavita di primissimo piano? Succede che i pazienti, apprendendo che su una rivista come il British Medical Journal (Bmj) si mette in dubbio che gli Ace inibitori possano aggravare la malattia Covid-19, comincino a telefonare impauriti ai propri medici curanti, oppure – ancora peggio – a sospendere la terapia secondo un fai-da-te medico che, alla fine, produce malattia e morte che possono avere un impatto maggiore dello stesso Sars-CoV-2. Poiché normalmente il pubblico non ha interesse alla lettura di articoli di Bmj, i ricercatori non sono abituati a considerare questo tipo di effetti; ma quando l’attenzione del pubblico e dei giornalisti per un certo tema è massima, a causa delle contingenze legate a una specifica emergenza, è indispensabile che riviste e ricercatori valutino bene quale può essere l’impatto della pubblicazione di pezzi di opinione, discussioni, editoriali e in generale di ciò che non è strettamente legato alla presentazione di dati sperimentali o di nuovi risultati.

 

Purtroppo, invece, forse anche lusingati dalla quantità di attenzione mai prima disponibile, molti appartenenti alla comunità scientifica e clinica si lasciano andare esattamente all’eccesso che andrebbe evitato: pur di essere i primi ad affermare qualcosa di potenzialmente interessante, inviano alle riviste contenuti che al massimo esprimono il pensiero di una persona esperta o di un gruppo di esperti, e che proprio per l’attenzione che inevitabilmente attirano, causano effetti collaterali anche gravi come nell’esempio illustrato. Io non ho da offrire soluzioni pronte a un problema complesso, che tocca il difficile equilibrio tra la necessità di raggiungere vaste audience per illustrare qualcosa che potrebbe – potrebbe – essere vitale, e la necessità altrettanto stringente di non contribuire a un pericoloso disordine informativo, sotto la veste autorevole di una pubblicazione su di una importante rivista scientifica; ma sarebbe ora di interrogarsi a fondo su questi aspetti, chiedendo l’aiuto di chi la comunicazione la studia e la conosce per mestiere, come propria disciplina, e cercando forse di arrivare ad un insieme di regole minime e condivise di “civiltà comunicativa” anche per quel che riguarda territori, come la pubblicazione scientifica, ove si pensa di solito che tali regole non debbano essere applicate.

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