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Esperimenti sbagliati e ricerche inutili. I troppi flop della scienza moderna

Maurizio Stefanini

Secondo "Nature" c'è una “crisi di riproducibilità” negli ultimi studi. E ogni anno si stima che nei soli Stati Uniti si sprecherebbero 28 miliardi di dollari in ricerche biomediche che poi non si riesce a riprodurre correttamente

Ricordate quando il 23 marzo del 1989 Stanley Pons e Martin Fleischmann annunciarono al mondo il successo di un esperimento di Fusione Fredda che avrebbe rivoluzionato il futuro energetico dell’Umanità, ma che poi in capo ad appena un paio di mesi si rivelò una bufala?  Ricordate di quando nel 2011 fu un esperimento del Cern e dei Laboratori dell'Infn del Gran Sasso a dimostrare una possibilità di superare la velocità della luce che poi fu a sua volta smentita? Sono casi particolarmente clamorosi, ma forse non troppo isolati. L’85 per cento delle ricerche che vengono fatte oggi in campo biomedico sarebbe infatti inutile. E il 90 per cento degli scienziati che ha risposto a una recente indagine sul tema della rivista “Nature” ritiene che ci sia una “crisi di riproducibilità” degli esperimenti. Lo denuncia un manifesto appena pubblicato dalla stessa “Nature”, in cui un gruppo di ricercatori operanti in Stati Uniti, Regno Unito e Paesi Bassi descrive lo stato della Scienza di oggi come afflitta da una epidemia di studi inutili.

 

Quel che si sta perdendo sarebbe quel principio base della Scienza moderna, secondo cui l’esperimento alla base di una nuova scoperta deve poter essere riprodotto da tutti gli scienziati che si pongano nelle medesime condizioni, utilizzando il medesimo protocollo. Principale estensore del documento è John Ioannidis: un medico e ricercatore della Stanford University, pioniere di una “Metascienza” che si pone appunto l’obiettivo di analizzare il lavoro dei colleghi scienziati, in modo da vedere se rispetti le regole fondamentali di una buona scienza. E le risultanze di questo scrutinio sarebbero devastanti: solo tra il 10 e il 20 per cento degli studi fatti su animali seguirebbe infatti i passi corretti, e nel caso di saggi clinici su pazienti la proporzione crollerebbe al 5 per cento. Una statistica desolatamente bassa, che si ripete più o meno eguale in tutti i rami della Scienza. Nel 2013, in particolare, uno studio di Ioannidis stroncò il 95 per cento dei lavori esaminati. In seguito dimostrò la fallacia di migliaia di studi di neuroscienza basati su una tecnica di risonanza magnetica, e nel 2015 sempre “Nature” riferì una sua stima secondo la quale ogni anno nei soli Stati Uniti si sprecherebbero 28 miliardi di dollari in ricerche biomediche che poi non si riesce a riprodurre correttamente.

 

Secondo gli estensori del Manifesto, non sarebbe però tutta colpa degli scienziati. Università, riviste scientifiche, enti finanziatori contribuirebbero tutti a “drogare” il sistema. Pubblicando e finanziando a volte solo coloro che affermano di stare facendo scoperte clamorose; altre volte solo coloro che sembrano confermare cose date già per assodate. Come ha spiegato poi Ioannidis, “una volta si iniziava con l’analizzare i dati grezzi. Poi gli autori andavano nelle Accademie a riprodurre i loro esperimenti davanti a tutto il mondo. Ma ora gli studi si basano su milioni di fogli di dati che non si riesce più a controllare”. Insomma, “non scoperta scientifica, ma autoinganno”. Per evitare il quale il Manifesto propone una serie di misure concrete: “tornare ai principi base”, innanzitutto, e pubblicare sia i dati grezzi che i risultati negativi. Ma servirebbe anche pubblicare meno e con più discernimento, e anche diminuire la pressione che pesa sui ricercatori.