Ansa
L'analisi
La guerra (vana) di Schillaci all'intramoenia e il caso Lombardia
Al di là delle polemiche politiche, il nodo delle liste d’attesa non ha nulla a che vedere con la libera professione. Le soluzioni richiedono investimenti, personale, organizzazione, tecnologia e una strategia nazionale coerente
Di fronte a liste d’attesa sempre più lunghe e cittadini costretti a rinviare visite ed esami, il ministro della Salute Orazio Schillaci, in una recente intervista, ha indicato ancora una volta la libera professione intramoenia come un possibile responsabile dello squilibrio tra prestazioni pubbliche e attività a pagamento. “La libera professione è un diritto, ma non può negare la prestazione pubblica”, ha affermato il ministro, ipotizzando persino una sospensione temporanea dell’Alpi nei casi in cui i tempi d’attesa siano troppo sbilanciati tra pubblico e intramoenia. Un messaggio che torna ciclicamente nel dibattito pubblico, ma che rischia di colpire un bersaglio sbagliato. Perché lo stesso ministero della Salute, nell’ultima Relazione sullo stato di attuazione dell’esercizio dell’attività libero professionale (anno 2023), dimostra numeri alla mano quanto il peso dell’Alpi sia solo una minima frazione del totale dell’attività sanitaria pubblica.
Nel solo 2023 le strutture pubbliche hanno erogato oltre 60 milioni di prestazioni ambulatoriali, contro circa 7 milioni in intramoenia, pari ad appena il 12 per cento del totale. Un divario che diventa abissale sul fronte dei ricoveri: l’Alpi pesa meno dello 0,5 per cento. E se si guarda alla spesa sanitaria delle famiglie - tema molto sentito, soprattutto in un periodo di inflazione e difficoltà economiche - il quadro è ancora più chiaro: dei circa 600 euro pro capite che gli italiani pagano di tasca propria per la salute, solo 21 euro derivano da prestazioni intramoenia. Il resto va al privato puro, quello che sfugge al controllo del Servizio sanitario nazionale. Alla luce di questi numeri, attribuire all’Alpi la responsabilità delle liste d’attesa rischia di essere un paradosso. Anche perché sospendere l’intramoenia non aumenterebbe in alcun modo la capacità del pubblico – già oggi al limite delle proprie possibilità – ma finirebbe implicitamente per rafforzare il privato non regolato. Una deriva che, oltre a depotenziare ulteriormente il Ssn, rischierebbe di aumentare ulteriormente la spesa delle famiglie.
Il ministro richiama poi la necessità di migliorare l’appropriatezza prescrittiva. Tema importante, certo, ma che richiede tempo, studio e una strategia strutturata. Ridurre le prescrizioni inutili è un obiettivo sacrosanto, ma si tratta di un fenomeno complesso, alimentato da una macchina economica privata molto potente. Intervenire su questo fronte significa avviare un percorso lungo, non certo immaginare soluzioni immediate o scorciatoie semplicistiche. Il rischio, continuando con questa “caccia alle streghe” contro l’intramoenia, è duplice: da un lato si indebolisce un tassello – piccolo ma regolato – del sistema pubblico; dall’altro si erode la fiducia dei cittadini nei confronti del Ssn, proprio mentre la tenuta sociale richiederebbe risposte chiare, coordinate e basate sui dati.
E mentre il ministro lancia l’allarme sull’Alpi, sul territorio c’è chi procede in tutt’altra direzione. La Regione Lombardia, con una delibera approvata lo scorso settembre, ha avviato la cosiddetta “super-intramoenia”, obbligando le strutture pubbliche a mettere a disposizione delle assicurazioni e dei fondi integrativi le proprie prestazioni, con regole chiare su tracciabilità, limiti volumetrici, assenza di costi per il pubblico e una trattenuta del 5 per cento destinata alla riduzione delle liste d’attesa. Una scelta che, sulla carta, potrebbe porre problemi di equità, ma che nasce da un dato di fatto: solo nei primi nove mesi del 2025 la Lombardia ha erogato oltre 807.000 prestazioni per la sanità integrativa, circa il 2 per cento del totale regionale. Una pratica diffusa in tutta Italia – si contano circa 20 milioni di prestazioni integrative – ma mai regolamentata in modo uniforme. Da qui la decisione di mettere ordine in un sistema già esistente.
La verità è che, al di là delle polemiche politiche, il nodo delle liste d’attesa non ha nulla a che vedere con la libera professione intramoenia. Le soluzioni richiedono investimenti, personale, organizzazione, tecnologia e una strategia nazionale coerente. Continuare ad additare l’Alpi come il problema rischia solo di distogliere lo sguardo dalle vere criticità, mentre i cittadini attendono risposte concrete e non slogan.
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