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indagine
La sanità italiana che resiste, nonostante tutto
La forza della sanità: l’eccellenza che nasce dalle difficoltà. Un sistema che fa miracoli con risorse contenute, ma che non può continuare a reggersi solo sul sacrificio di chi ci lavora. Cosa dicono i dati Ocse
Un popolo che invecchia, ma che invecchia bene. Un sistema sanitario che, nonostante le ferite, la cronica carenza di personale e un finanziamento pubblico più basso rispetto ad altri grandi big europei, continua a garantire risultati da paese leader. E’ il paradosso italiano, confermato ancora una volta dall’ultimo rapporto Health at a Glance 2025 dell’Ocse: con una speranza di vita di 83,5 anni, l’Italia si colloca al quinto posto al mondo per longevità, dietro solo a Giappone, Svizzera, Spagna e Israele. Un risultato che non si spiega soltanto con la dieta mediterranea o con la genetica, ma con la tenuta di un Servizio sanitario nazionale che, pur logorato, resta universalistico, solidale e sorprendentemente efficace. Nel confronto con gli altri paesi industrializzati, l’Italia continua a distinguersi per la qualità delle cure, per la capacità di salvare vite e per l’efficienza degli interventi. E’ il lato luminoso di una medaglia che sull’altro fronte mostra crepe profonde: risorse insufficienti, sprechi strutturali, diseguaglianze territoriali che amplificano ogni difficoltà. Ma il quadro che emerge dai dati Ocse è chiaro: anche con un finanziamento ridotto, il nostro sistema riesce a garantire standard elevati e risultati che molti paesi più ricchi non raggiungono. La nostra aspettativa di vita supera di oltre due anni la media dei 38 paesi Ocse, che si ferma a 81,1 anni.
A reggere l’urto è soprattutto la rete dell’emergenza-urgenza. Gli indicatori più sensibili, quelli che misurano la capacità di risposta immediata, confermano un’efficienza che sorprende. La mortalità a trenta giorni per infarto del miocardio è del 4,7 per cento, contro una media Ocse del 6,5; la Germania, pur spendendo molto di più, si ferma al 7,9 per cento. Anche la mortalità a trenta giorni per ictus ischemico è tra le più basse: 6,9 per cento contro una media del 7,7. Dietro questi numeri c’è la professionalità dei medici e degli infermieri italiani, la solidità di reparti che funzionano spesso con organici ridotti, e un capitale umano che sopperisce con dedizione dove le risorse mancano. E’ la forza silenziosa del nostro sistema: l’eccellenza che nasce dalla difficoltà.
La qualità delle cure primarie si riflette poi nel basso tasso di ricoveri evitabili per patologie croniche come asma, Bpco, scompenso cardiaco e diabete. Significa che, pur tra mille ostacoli, la medicina territoriale continua a funzionare: i medici di famiglia, i distretti, le farmacie, le Asl che presidiano il territorio. E’ la trama invisibile del Servizio sanitario nazionale, quella che impedisce ai malati cronici di finire in ospedale per complicanze che altrove costerebbero carissimo.
Eppure, la tenuta di questo equilibrio è sempre più fragile. L’Italia spende in sanità l’8,4 per cento del pil, contro una media Ocse del 9,3; la Germania arriva al 12,7 per cento, la Francia al 10,8. In termini pro capite, la distanza è ancora più evidente: 5.164 dollari per cittadino contro i 7.367 della Francia e i 9.365 della Germania. E’ un sistema che fa miracoli con risorse contenute, ma che non può continuare a reggersi solo sul sacrificio di chi ci lavora.
Per questo la sfida più urgente è quella dell’efficienza. L’Italia deve imparare a spendere meglio, eliminando sprechi e inappropriatezze che erodono la sostenibilità del sistema. L’ultimo rapporto OsMed dell’Aifa lancia un allarme preciso: un anziano su tre assume almeno cinque farmaci diversi ogni giorno per oltre sei mesi l’anno, e il 70 per cento degli over 65 ha ricevuto prescrizioni di cinque o più principi attivi in dodici mesi. Tra gli ultraottantacinquenni la media sale a 8,7 sostanze diverse per persona. La politerapia è inevitabile in presenza di più patologie croniche, ma diventa pericolosa quando sfugge al controllo. L’Aifa avverte che un eccesso di farmaci aumenta il rischio di interazioni e reazioni avverse, con ricoveri evitabili e, nei casi più gravi, esiti fatali.
Il paradosso è evidente: si spende di più per curare peggio. Ogni compressa non necessaria rappresenta uno spreco che grava sul sistema e un rischio per il paziente. Per questo l’Agenzia del farmaco promuove il “deprescribing”, la revisione periodica delle terapie, per ridurre ciò che non serve e migliorare la qualità delle cure. E’ un cambio culturale profondo: non più “curare di più”, ma “curare meglio”.
Un’altra grande zona grigia è quella della diagnostica per immagini. Ogni anno in Italia si eseguono oltre settanta milioni di prestazioni tra tac, risonanze e radiografie. Secondo la presidente della Sirm, Nicoletta Gandolfo, fino al 40 per cento degli esami è inappropriato. Dietro questa inflazione diagnostica si nasconde il fenomeno della medicina difensiva: molti medici prescrivono test inutili per tutelarsi da possibili denunce. Un atteggiamento comprensibile, ma disastroso per il sistema. Il ministro della Salute Orazio Schillaci stima il costo della medicina difensiva in circa undici miliardi di euro l’anno. Denaro che si disperde in accertamenti non necessari, mentre migliaia di pazienti aspettano mesi per una risonanza davvero urgente.
Una riforma per arginare questo meccanismo era stata elaborata dalla commissione D’Ippolito, istituita dal ministro della Giustizia Carlo Nordio: prevedeva l’esclusione della punibilità per colpa lieve, pene pecuniarie per le denunce infondate e una valorizzazione delle buone pratiche cliniche. Ma il percorso si è fermato prima di diventare legge, travolto dalle tensioni politiche interne alla maggioranza. E’ rimasto solo lo “scudo penale” introdotto durante la pandemia e reso strutturale, misura di compromesso in un mare di incertezze.
Nel frattempo, anche la prevenzione non brilla come potrebbe. L’Italia destina a questo settore il cinque per cento della spesa sanitaria totale, più della media Ocse (3,4), ma dodici regioni su venti non riescono a spendere tutte le risorse disponibili, pari a circa sei miliardi di euro. E’ un paradosso: si investe più di altri, ma si spende male. Il risultato è che molti programmi di vaccinazione e screening restano incompiuti. Quindici regioni su venti non raggiungono gli obiettivi minimi per le vaccinazioni pediatriche, le coperture per l’Hpv maschile crollano al due per cento oltre i 24 anni, e mancano operatori per i nuovi piani di immunizzazione. Anche gli screening oncologici soffrono: nel Sud solo il diciotto per cento della popolazione partecipa a quello per il colon-retto, contro una media nazionale del trentatré e un obiettivo del cinquanta.
La pandemia ci ha lasciato un duro insegnamento: una sanità basata solo sugli ospedali non regge. Da qui il progetto del Pnrr sanitario: case della comunità, ospedali di prossimità, assistenza domiciliare integrata. Ma i numeri raccontano una realtà ancora acerba. Secondo l’Agenas, al primo semestre 2025 solo 660 delle 1.723 Case della Comunità previste sono operative, appena il 38 per cento; solo 46 strutture, meno del 3 per cento, sono davvero funzionanti, con personale stabile e servizi completi. Il vero limite è sempre lo stesso: la carenza di personale. Oggi mancano oltre 5.500 medici di medicina generale e migliaia di infermieri. Nel 2019 c’erano 42.000 medici di famiglia, oggi ne restano poco più di 36.000, con un calo del 12,8 per cento. Gli infermieri sono 6,9 ogni mille abitanti, contro una media Ocse di 9,2.
La carenza di professionisti rischia di far naufragare ogni riforma. Alcune regioni propongono di estendere la tassazione agevolata al cinque per cento sugli straordinari per provare almeno a trattenere il personale che formiamo in Italia e che sempre più spesso fugge all’estero in cerca di una qualità del lavoro e stipendi ben migliori, ma servono misure più strutturali. Un segnale incoraggiante arriva invece dall’assistenza domiciliare, che ha finalmente raggiunto il target europeo del dieci per cento degli over 65 seguiti a casa, grazie ai fondi del Pnrr. “Curare gli anziani nelle loro abitazioni non è solo più umano, è anche più sostenibile”, spiegano dal ministero della Salute, “ma bisogna consolidare il modello con risorse permanenti”.
Nel mosaico della sanità italiana un ruolo crescente lo gioca anche la Farmacia dei Servizi, diventata punto di riferimento per milioni di cittadini. Nata come sperimentazione, oggi rappresenta il volto più moderno del sistema: prossimità, accessibilità, prevenzione. E’ il simbolo di una sanità che intercetta sul territorio il paziente, ed entra fin dentro casa grazie alla telemedicina, invece di aspettarlo in ospedale.
Resta, però, il nodo più antico: la politicizzazione della sanità. Troppe nomine rispondono ancora a logiche di appartenenza e non di competenza, e la gestione delle Asl spesso risente di equilibri locali più che di efficienza. Il sindacato Anaao Assomed propone di affiancare ai direttori generali un direttore clinico con pari poteri, per riequilibrare il rapporto tra amministrazione e professione. E’ un’idea di governo clinico che mira a restituire un peso decisionale maggiore ai professionisti e al territorio. Per una sanità più “orizzontale” e con decisioni meno calate dall’alto, spesso frutto di logiche clientelari locali.
L’Italia, nonostante tutto, resta un paese dove si vive a lungo e, quando serve, si è curati bene. Ma questo miracolo quotidiano è fragile, e la sua tenuta non è garantita. Il rischio è che la forza d’inerzia, l’abitudine al miracolo, diventi la nostra condanna. Per salvarlo, il Servizio sanitario nazionale deve ritrovare la sua vocazione originaria: equità, universalismo, qualità. Non servono solo più fondi, ma una rivoluzione culturale che parta dall’efficienza, dalla prevenzione e dal rispetto per chi lavora ogni giorno nelle corsie. In un contesto di risorse contingentate è doveroso che ogni euro in più investito nel Ssn non venga disperso tra i mille rivoli delle inefficienze.
La vera sfida non è solo aumentare la spesa, ma usarla meglio: meno farmaci inutili, meno esami inappropriati, più prevenzione, più territorio, più umanità. Ogni spreco eliminato è una cura in più per chi ne ha bisogno. E forse è qui, in questa capacità di resistere e reinventarsi, che si gioca il futuro della sanità italiana: nella possibilità di trasformare la nostra eccellenza d’emergenza in una quotidiana normalità di efficienza e giustizia sociale. Perché un paese che sa curare bene i suoi cittadini non è solo più sano. E’ anche più giusto, più civile ed economicamente più forte.
Paradosso sanitario e politico