
Ansa
Lo studio
La salute mentale nelle carceri è un dato non quantificabile
L'ultimo rapporto della Società della ragione mette in luce la situazione negli istituti dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, evidenziando come la mancanza di criteri condivisi impedisca una comparazione sistematica
Non è possibile avere dei numeri precisi sul problema della salute mentale nelle carceri italiane. Si conclude così l'ultimo rapporto curato dalla Società della ragione chiamato “La salute mentale in carcere dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari". Lo studio, da cui è nato anche un podcast disponibile su tutte le piattaforme, "Fratture", ha dimostrato che esistono dati non quantificabili, e tra questi c'è proprio il livello di benessere delle persone private della libertà. La mancanza di criteri condivisi da tutte le istituzioni non permette di realizzare una comparazione sistematica: in alcuni casi infatti la scelta di classificare i detenuti all’interno di una categoria piuttosto che un’altra, evidenza il rapporto, "è influenzata da valutazioni di natura gestionale o discrezionale. La disomogeneità dei criteri adottati dagli istituti coinvolti per identificare e certificare la 'presa in carico', la 'presa in cura' e le 'attività consulenziali' dei detenuti con disturbi psichiatrici, ha restituito l’immagine della salute mentale in carcere come qualcosa di non quantificabile".
Lo studio, condotto da due ricercatori, Katia Poneti, esperta giuridica del Garante regionale dei detenuti della Toscana, e da Riccardo Girolimetto, sociologo della Società della ragione, è stato realizzato attraverso seminari e visite in tre realtà territoriali: Prato, Udine e la sezione femminile del carcere di Rebibbia. Nell'istituto romano però dopo i primi incontri, un cambio dell'amministrazione ha impedito che l'indagine proseguisse. Lo scopo del progetto è quello di conoscere il livello di tutela della salute mentale in carcere e di assistenza alle persone condannate con disturbi psichiatrici gravi da quando la gestione dei detenuti è passata dall’amministrazione carceraria al Servizio sanitario nazionale, nel 2008. E ha indagato su cosa sia successo con la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) nel 2014 e la loro sostituzione con le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), strutture sanitarie che accolgono gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi.
Se prendiamo in considerazione la serie storica di suicidi avvenuti in carcere negli ultimi dieci anni – nel 2024 ce ne sono stati 91 – viene fuori che il numero di suicidi nei contesti detentivi è venti volte superiore rispetto a quello della popolazione generale. Anche perché, secondo il Department of Mental Health and Substance Abuse dell'Organizzazione mondiale della sanità, molti episodi continuano "a manifestarsi anche dopo la scarcerazione". La condizione di benessere dipende da diversi fattori. Alcuni possono essere facilmente identificabili: la quantità di ore d'aria, la frequenza dei provvedimenti di isolamento e le sanzioni disciplinari. Ma ci sono anche elementi meno visibili, come gli episodi di bullismo, i conflitti con altri detenuti che sfuggono agli occhi di chi dovrebbe vigilare e la possibilità che chi sia in prigione riceva brutte notizie dall'esterno. Si deve aggiungere che i ragazzi più giovani, entrando in carcere, devono recidere il legame con la famiglia e gli amici. Tutti questi elementi possono spingere la persona a provare "sentimenti di disperazione, perdita di prospettive e incapacità di agire" e in questo contesto il suicidio viene percepito come unica via di uscita da una situazione insostenibile.
Purtroppo la fragilità emotiva è difficile da vedere e il contesto è reso ancora più difficile dalla mancanza di psichiatri in molti istituti. Anche per questo, gli agenti dovrebbero ricevere "un addestramento specifico e una lista di domande guida" per fare lo screening. Ma molto spesso è la stessa polizia penitenziaria che, come nel caso del carcere di Prato, vive male nell'ambiente carcerario e lo studio della Società della ragione è riuscito a raccogliere la testimonianza del comandante: "Ci sono in sezione ragazzi di 20 anni mandati qui dopo quattro mesi di corso e hanno paura di entrare dentro. Molti poi si licenziano. Di personale più vecchio di esperienza ce n'è rimasto pochissimo, i giovani non sono affiancati".
Nel carcere di Prato per esempio, i posti regolamentari sono 589, ma di fatto sono ospitati 649 detenuti di cui il 60 per cento stranieri. Secondo i dati raccolti dalla Società della ragione, circa duecento di loro non hanno la residenza e questo "comporta difficoltà e anche impossibilità sia delle persone con problematiche psichiatriche sia dei detenuti tossicodipendenti ad avviare percorsi alternativi. Le problematiche si sovrappongono: stranieri, tossicodipendenti, psichiatrici, senza residenza". L'elevato numero di persone fa sorgere dei dubbi sulla vivibilità delle celle e, come sottolinea il rapporto, "non è sicuro che effettivamente siano garantiti i 3x3 metri quadri calpestabili per ciascun detenuto".
Un altro problema riguarda invece l'accesso ai servizi psicologici. "Qui si perdono le domandine, io voglio andare dallo psicologo ma non ci riesco”. Le telefonate (1 euro per 10 minuti, secondo quanto racconta una persona detenuta) sono percepite come un beneficio, ma la carenza di personale limita la possibilità di concessioni aggiuntive: “Se chiedi una telefonata in più ti dicono di no perché bisogna scendere”.

Cattivi scienziati