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individui e società

Se il Bonus psicologo è da pazzi. Una società medicalizzata non fa bene a nessuno

Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi

E’ allarme salute mentale, così sembrano indicare i numeri. Ma il semplice disagio non è una malattia, e lo psicoterapeuta non è un guaritore. Trasformare ogni guaio dell'esistenza in una patologia è poco democratico: sono le società chiuse che derubricano a malattia mentale la ricerca di indipendenza del singolo

Da quando è iniziata la pandemia si è avuto un continuo allarme sull’impatto che la paura del contagio, le quarantene con relativo isolamento fisico (“distanziamento sociale”), i rischi occupazionali, le chiusure scolastiche avrebbero avuto sulle condizioni mentali delle persone. I disturbi mentali erano già in aumento. L’ultima indagine epidemiologica su scala globale, condotta nel 2019, rilevava un incremento delle malattie mentali tra il 1990 e il 2019 espresso in DALY (attesa di vita corretta per disabilità, che è la somma degli anni di vita persi e di quelli vissuti con disabilità), da 80 milioni a 125 milioni. Nel complesso di tutte le patologie, il carico di quelle mentali è passato dal 3,1 al 4,9 per cento. I tassi standardizzati per età sono tuttavia rimasti costanti. Nel 1990 i disturbi mentali erano la quattordicesima causa di anni di vita persi o vissuti con disabilità e ora sono la settima per anni di vita persi, e la seconda causa di anni vissuti con disabilità. Parliamo di 654,8 milioni di casi nel 1990 e di 970 milioni nel 2019 (The Lancet Psychiatry, 10 gennaio 2022): considerando le diverse forme cliniche, la depressione è la seconda causa di anni vissuti con disabilità, l’ansia è ottava e la schizofrenia la ventesima. Una revisione sistematica di alcune migliaia di fonti avrebbe riscontrato, come conseguenza di Covid 19, un aumento del 27 per cento della prevalenza totale di disturbi depressivi gravi e del 25 per cento di disturbi ansiosi.

Certamente sono aumentate le persone che richiedono interventi psicologici, a prescindere da una diagnosi clinica. Un’indagine pubblicata dall’American Psychological Association (Apa) nel 2020 riportava un incremento dei trattamenti dei disturbi di ansia (dal 74 all’84 per cento) e delle depressioni (dal 60 al 72 per cento). Un anno dopo Apa ha pubblicato uno studio dove riporta che è cresciuta ulteriormente la domanda di trattamenti per l’ansia e la depressione, ma anche per disturbi del sonno, ossessivo-compulsivi e dipendenze. E’ passato dal 37  nel 2020 al 62 per cento nel 2021 il numero di psicologi che riportano di aver ricevuto richieste di trattamento. Alla fine del 2021 il 97 per cento degli psicologi clinici faceva terapia online.

Le cause di questa inflazione di richieste di aiuto e di trattamenti sono diverse e non necessariamente puntano nella stessa direzione. Qualcosa non funziona come desidereremmo nelle condizioni che le persone trovano nell’arena sociale, abbiamo aspettative che sono create anche da una educazione e da una comunicazione poco informativa per quel che riguarda i problemi dell’esistenza, per cui siamo portati a pensare che esistano soluzioni preconfezionate, che se le cose non vanno bene è perché esiste qualche disfunzione nell’organismo sociale o in noi, e che quindi le situazioni di insoddisfazione, fatte salve le condizioni nelle quali esiste davvero un condizione clinica, abbiano una natura medica. Sempre più siamo portati a credere che serva un professionista che cura il comportamento, che ci fornisca una trattamento per una condizione che viene da fuori e che non è nel nostro controllo. 

Il bonus psicologico di 20 milioni in due tranche stanziato dal governo accoglie come vero, senza verifiche e ascoltando solo l’Ordine degli psicologi, il fatto che siamo ora di fronte a una epidemia di malattie mentali, per cui secondo indagini o sondaggi confusi, 8 italiani su 10 soffrirebbero di un “malessere psicologico strutturato” e il 2 per cento di “problemi mentali in senso stretto o severi”. Che oltre un milione di italiani soffra di disturbi è statisticamente ragionevole, ma non che l’80 per cento sia affetto da una cosa indefinita, come un “malessere psicologico strutturato”. Vorrebbe dire che in quasi 50 milioni hanno bisogno di uno psicologo, cioè di una psicoterapia. Se tutti o quasi siamo in una situazione di “malessere psicologico strutturato”, è come dire che non lo è nessuno.

Non si sono alzate voci dissonanti, a eccezione di un intervento un po’ maldestro del presidente di Confindustria. In parte, è parsa una sorta di “riparazione”: si assume (anche in questo caso, senza fare riferimento a dati precisi) che i beneficiari del bonus siano in larga misura i più giovani. Siccome l’opinione pubblica e il governo ne hanno patentemente ignorato le esigenze durante i mesi più duri della pandemia, questo sarebbe una sorta di risarcimento. Modesto, verrebbe da dire: in totale il bonus stanzia 20 milioni di euro, e interesserà circa 16 mila persone contro i milioni di malati stimati, in un paese dove di ben altra stazza sono le spese intraprese in nome della pandemia.

A noi sembra che ci sia, in realtà, un fraintendimento di base, che riguarda la natura dei problemi di cui stiamo parlando, delle discipline che li studiano, delle effettive speranze di metterceli alle spalle.

Sembra esserci una sorta di soggezione nei riguardi di chi ha studiato o pratica la psicologia, come se costoro avessero davvero accesso ai meccanismi della nostra mente, allo stesso modo in cui gli immunologi, coi vaccini, riescono a cambiare a nostro vantaggio il funzionamento del sistema immunitario. Non si vuole qui sostenere che la psicoterapia non serve a niente, ma, come per i farmaci più noti e comuni, per un qualunque disturbo esistono diverse psicoterapie – ne sono state contate cinquecento – pochissime della quali sono state controllate. Alcune (poche) hanno un’efficacia moderata. Altre purtroppo nemmeno quella. 

L’estensione stessa del regno del “malessere” segnala che forse stiamo confondendo con una “condizione” specifica quella che alla fine è, con tutta la sua precarietà e tutte le sue incertezze, semplicemente la condizione umana. E che dunque in fondo non stiamo facendo che chiedere a un professionista di svolgere la funzione che, senza laurea e però con molto buon senso, una volta svolgevano i sacerdoti, per alcuni di noi gli amici, i confidenti, per altri la lettura di un buon romanzo. In linea con alcune tendenze di fondo della modernità, abbiamo “medicalizzato” quello che un tempo era semplicemente “avere dei problemi”. Ciò è, in molti casi, un progresso autentico: sono molti gli esempi di malattie in passato banalizzate e ridotte a stereotipi sociali. Si pensi solo all’epilessia. Ma si può peccare per eccesso con la stessa determinazione con cui ieri si peccava per difetto: trasformare ogni problema nell’oggetto di studio di una disciplina e di una professione, indipendentemente dal fatto che possa essere effettivamente materia di studio scientifico.

Perché così tanta gente va e vuole andare dallo psicologo? Quelo, il personaggio di Guzzanti, saprebbe dare una risposta. Fatto sta che la nostra vita oggi è molto più sicura che in passato, ma per ognuno di noi, e per alcuni più che per altri, può essere molto più faticosa e complicata. Soprattutto faticosa mentalmente, visto che dobbiamo costantemente imparare cose nuove e prendere decisioni in mancanza di informazioni sufficienti, e per questo dobbiamo affrontare un maggiore carico emotivo, ad esempio, per il timore di non essere all’altezza, di sbagliare e peggiorare la nostra condizione o quella dei nostri cari. Non tutto quello che siamo chiamati a sapere o a decidere è sensato, ma la burocrazia è un parassita ineliminabile nelle società complesse e paghiamo tante disfunzioni con non pochi vantaggi. Le nostre società aperte e complesse sono fantastiche nel risolvere i problemi generali, ma accentuano lo iato tra le inclinazioni e le aspettative individuali, da una parte, e le condizioni in cui di norma ci troviamo a vivere, dall’altra.

Spesso le persone non sanno come affrontare le difficoltà e cadono nella disperazione, cercando aiuto in chi dice di poter far qualcosa. E’ sempre stato così del resto, ed è nella natura umana scommettere con la fiducia. Da alcuni decenni si tende a pensare che psicologi o psichiatri abbiano le risposte alle questioni che rendono la vita così complicata e che siano in possesso di rimedi efficaci per regolare i comportamenti. Qualche onesto psichiatra si rende conto di avere una quota di responsabilità per aver sopravvalutato il proprio ruolo, medicalizzando problemi umani comuni. L’alluvione di articoli divulgativi o pseudofilosofici di psicologi e psichiatri, che pontificano a 360 gradi, ha concorso a generare tra le persone che assorbono qualunque idea senza vagliarla criticamente l’aspettativa irrealistica che esistano una medicina e una terapia per i disagi della modernità. Il “laicismo di massa” ha liquidato i preti ma non poteva fare a meno della più essenziale funzione svolta da questi ultimi: la confessione. Così ha trovato un buon surrogato, il migliore disponibile vista la pervasività di alcuni, più o meno ben digeriti, assunti freudiani. Del resto, il variegato mondo della psicologia non manca di fornire alla pubblica opinione intellettuali pubblici ed “esperti”, la cui autorevolezza si basa su una strategia opposta eppure simile a quella dei sacerdoti di un tempo. Se la religione offriva conforto lasciandoci balenare una vita dopo la morte, la psicologia ci vezzeggia presentandoci una vita nella quale le nostre scelte sono costantemente guidate da fattori pre-relazionali e il filo della responsabilità, che lega azioni e pensieri, si assottiglia costantemente. Mentre la religione segnava con lo stigma del peccato comportamenti poco vantaggiosi per la società e spesso per gli stessi individui, ora la psicologia trasforma il peccato di ieri in qualche “condizione” i cui responsabili coincidono con le nostre famiglie, le nostri madri, magari la società tutta, ma mai con noi stessi.

La patologizzazione di problemi quotidiani, etichettandoli come disturbi mentali, ha fatto sì che le persone spesso giudichino condizioni di ansia o tristezza, del tutto all’interno dello spettro normale, come malattie, ovvero condizioni che “colpiscono” e che sono estranee all’esperienza umana. Numerosi pazienti si recano dallo psicologo/psichiatra per sapere se “hanno l’ansia”, come se andassero dal medico per sapere se hanno l’influenza.
Sono gli psichiatri i primi a dire che i disturbi mentali sono, per loro stessa natura, difficili da definire con precisione. Consultiamo per esempio il Dsm V, il manuale diagnostico e statistico che è la Bibbia dei disturbi mentali, alle pagine che trattano di ansia e depressione, che nel mondo occidentale sono le principali condizioni psicopatologiche a carico del comportamento umano, ovvero che causano il maggior numero di anni di vita persi per disabilità. Considerare queste condizioni come clinicamente rilevanti non è come stabilire se si è ipertesi, ipercolesterolemici, iperglicemici, etc. La diagnosi dipende dalla gravità, dal numero di sintomi associati, dal grado di compromissione funzionale, dalla persistenza o ricorrenza, etc. Come hanno osservato autorevoli studiosi internazionali, i sistemi di classificazione diagnostica usati in psichiatria e le campagne di sensibilizzazione sulla salute mentale hanno generalizzato eccessivamente la definizione di malattia mentale.

I manuali di psichiatria insegnano che, come per altre condizioni, la maggior parte dei disturbi d’ansia e di depressione (e la maggior parte degli altri problemi psichiatrici) sono ragionevolmente descrivibili come estremità di uno spettro (di solito una curva a campana) di tratti e tendenze umane normali. Diverse persone esprimono ansia in modi costituzionalmente o geneticamente diversi, e per alcune fa semplicemente parte della loro costituzione (si sarebbe detto un secolo fa): il loro “temperamento” ansioso, nel bene e nel male, è ciò che sono e come sono. Ci sono dei lati anche positivi in questi tratti quando non compromettono la vita personale e sociale, altrimenti la selezione naturale non avrebbe favorito la riproduzione di individui ansiosi che portano i geni che predispongono alla depressione: tendono a essere più sensibili, più capaci di stabilire sintonie emotive, ovviamente più prudenti nelle loro decisioni e sembra anche più creativi.

Anche se si crede che depressione e ansia siano disturbi curabili, o curabili in modo definitivo e quindi molte aspettative si riversano sugli psichiatri come se fosse nella loro capacità guarire un disturbo mentale come si cura un’infezione con antibiotici, il tasso medio di successo è modesto. Alcuni pazienti rispondono bene ai trattamenti, ma spesso le persone sono sfortunate. La loro è una “condizione”, non un problema. La maggior parte migliora in modi parziali e gradualmente, con una combinazione di approcci che includono diversi tipi di psicoterapia e diversi farmaci. Parliamo non di quello che raccontano gli psicologi in televisione o sui giornali, bensì di quello che si legge nelle metanalisi dei trial clinici randomizzati e in doppio cieco, riguardanti l’efficacia di farmaci e psicoterapie che controllano i fattori non specifici o casuali e gli effetti placebo. Gli effetti placebo aumentano le risposte e dipendono fortemente dalle aspettative. Sebbene i farmaci efficaci per depressione e ansia siano relativamente superiori al placebo, gli effetti sono tutt’altro che decisivi se calcolati in media su tutti i pazienti. E quelli collaterali non sono per nulla irrilevanti. Fortunatamente, non raramente le persone migliorano per ragioni che non hanno nulla a che fare con il trattamento. Bruce E. Wampold, uno psicologo che è stato a lungo allenatore di wrestling, ha pubblicato solide prove statistiche per cui alcune psicoterapie funzionano meglio di altre sulla base di elementi che non hanno nulla a che vedere con la teoria psicologica di riferimento, ma sono la capacità del terapeuta di stabilire una relazione di fiducia con il cliente, l’adeguatezza dell’ambiente della cura, la disponibilità a cambiare una spiegazione o adattarla ai problemi del cliente e l’uso di procedure per migliorare concretamente la vita del cliente.

La pandemia di Covid 19 ha fatto aumentare i tassi effettivi di ansia, depressione e diversi altri disturbi mentali. Alcune ricerche condotte negli Stati Uniti mostrano però che la tendenza all’aumento delle autodiagnosi di disturbi mentali, fenomeno particolarmente pronunciato tra i giovani, precede di diversi anni la pandemia. I dati sono complicati da interpretare, tuttavia sembra essere aumentata la percezione delle persone di aver bisogno di cure psicologiche o la convinzione che gli psicologi abbiano soluzioni per difficoltà che sono la norma nella vita personale. La soglia per la ricerca di aiuto da parte dello psicologo, soprattutto tra i giovani, si è abbassata. E’ logico pensare che in passato queste persone non avrebbero cercato aiuto perché non sapevano che esisteva la malattia mentale, non conoscevano alcuni isolati sintomi e si recavano dallo psichiatra solo se la loro condizione implicava sofferenza e disfunzioni. Il maggiore psicologo cognitivo contemporaneo, Jonathan Haidt, e il giurista Greg Lukianoff qualche anno fa scrissero un libro illuminante, “The Coddling of the American Mind”. Sostenevano che in nome di quello che possiamo chiamare “safetyism”, “sicuritarismo”, le università americane stanno forgiando una nuova generazione molto più fragile delle precedenti. Gli studenti universitari, per esempio, debbono essere “protetti” da parole e idee che potrebbero destabilizzarli. E’ il grande circo del politicamente corretto e della cancel culture, per cui le persone non vanno esposte alle idee “pericolose”, le quali andrebbero semplicemente devitalizzate. Ma è anche un modo di insegnare che finisce per immaginare che il contatto da una parte col diverso, dall’altra con la critica e con il giudizio negativo, siano “microaggressioni” da cui preservare i ragazzi. Il grande psicologo James Flynn ha dedicato gli ultimi anni della sua vita a denunciare questa deriva e a sostenere che le cose più importanti per la sua formazione le aveva imparate leggendo e studiando autori che difendevano tesi che lui riteneva sbagliate.

Non è un caso se i nostri sono tempi di grade inflation, nei quali le B di oggi equivalgono alle C di ieri. E forse non è un caso se proliferano le diagnosi di disturbi dell’apprendimento, i quali agli studenti valgono spesso, anche quando si tratta di disturbi assai lievi, un percorso semplificato. In generale, è come se avessimo a che fare, collettivamente, con una persona (una generazione) che ha paura del buio e reagissimo tenendo sempre accesa la luce. Anche le pedagogie più rudimentali, e prima ancora la saggezza popolare, ci suggeriscono che non è così che si può attenuare quell’ansia o risolvere quella fobia.

In questo contesto, non stupisce se la diagnosi sembra essere diventata soprattutto una spiegazione per difficoltà personali, ovvero una legittimazione di quello che magari si sta facendo per opporsi a cambiamenti di vita che sarebbero necessari, l’opportunità di trovare simpatia nelle persone che sono intorno, giustificazione per le proprie carenze o difficoltà comportamentali ed elemento di identità e di appartenenza a un gruppo. Una diagnosi può offrire anche vantaggi pratici: congedi per malattia, indennità di invalidità, agevolazioni accademiche e copertura assicurativa per la terapia.

L’ansia dei giovani è comprensibilmente accresciuta dalla loro consapevolezza senza precedenti di minacce sociali fisicamente e temporalmente lontanei, quelle che gli arrivano da Internet, da un meccanismo virtuale e distante, quanto importantissimo, che oggi si attiva nei confronti di chiunque dichiari espressamente di essere una vittima o di avere un problema. Questo è del tutto nuovo, perché la malattia mentale è stata sempre oggetto di stigma sociale, nel senso che le persone tendevano a negare di avere un disturbo mentale, i familiari a nascondere i congiunti con disturbi mentali e il problema, come dimostrava Erwin Goffmann, negli anni Cinquanta era piuttosto l’invasività della psichiatria al servizio del conformismo ideologico nella vita delle persone attraverso i processi di etichettamento e segregazione dei malati di mente. Thomas Szasz ha riflettuto a lungo sul “mito della malattia mentale” come strumento repressivo, non solo al di là della cortina di ferro. I movimenti antipsichiatrici, soprattutto in Italia, hanno però negato la stessa possibilità della malattia mentale, consegnando al nostro paese una legge che aveva un unico scopo, certo non sbagliato, cioè chiudere i manicomi, ma che ha lasciato in mezzo al guado pazienti e famiglie esacerbandone le difficoltà. Le ultime generazioni hanno fatto della malattia mentale qualcosa di più normale, di cui parlare e non più da nascondere nelle conversazioni. Dal riconoscimento di una “condizione”, la nostra società produce inevitabilmente diversi tipi di “orgoglio”: una conquista che nondimeno sta portando con sé aspetti che sono anche controproducenti.

Alcuni psichiatri con un approccio più critico rispetto al loro ruolo pensano che quello a cui stiamo assistendo potrebbe essere l’esito del successo e la conseguenza non intenzionale di anni di campagne di educazione alla salute mentale e di destigmatizzazione. All’interno di ampi segmenti di giovani e giovani adulti di oggi nelle società occidentali, si osserva la condivisione di esperienze sulla propria salute mentale. Nei social media la salute mentale è un tema frequente e non passa giorno che qualche influencer o celebrità non parli tranquillamente, facendo outing come va di moda dire, dei propri problemi di salute mentale nel passato o attuali, riportando diagnosi o autodiagnosi. Si dirà che è un fenomeno positivo perché si “sdogana” una certa condizione, sradicando l’atteggiamento di rifiuto e liberando le persone da un fastidioso stigma sociale. Se non fosse che c’è un limite alle condizioni rimaste ancora in dogana e che il processo procede nel senso di una paradossale “divergenza parallela”: da una parte non c’è nulla da nascondere in nessuna inquietudine, non c’è niente che meriti di rimanere privato, l’unica cosa di cui dobbiamo vergognarci è la vergogna stessa. Dall’altra, mai come oggi, quello stesso individuo che è consapevole e “orgoglioso” della sua condizione deve anche essere “trattato” ed è comunque un paziente che ha bisogno di aiuto: se non altro aiuto nel trovare una dimensione “autonoma” in società e aiuto a preservarla a spese del pregiudizio. Davvero ci sono terapie disponibili, in questo frangente?

Guai a dimenticare che un conto è sdoganare pubblicamente qualcosa, un altro conto è che i pregiudizi vengano riconosciuti come tali da tutti. In comunità ristrette e culturalmente più arretrate, anche in questo paese, la malattia mentale rimane uno stigma: nelle grandi città persino i medici di medicina generale prescrivono ansiolitici e serotoninergici anche per sintomi banali, mentre nelle aree rurali i disturbi mentali sono di regola trascurati.
L’eccesso di diagnosi comporta rischi potenziali e conseguenze indesiderate, come una prescrizione eccessiva di farmaci e la banalizzazione delle malattie mentali gravi. Se tutti hanno un disturbo mentale, come dice l’Ordine degli psicologi, allora nessuno ce l’ha, e quelli che ce l’hanno davvero saranno derubricati nuovamente a paria come era nel passato. Per le persone più bisognose di servizi psichiatrici diventa infatti più difficile accedere al sistema già sovraccarico. Ed è pericolosa per le dinamiche sociali una perdita irrealistica dell’accettazione del fatto che stress e disagio sono caratteristiche intrinseche della vita, e che psichiatri e psicologi possiedano soluzioni ai problemi della vita.

Si tratta di una ricetta sicura per il declino di una società aperta, che è possibile proprio in virtù delle imperfezioni individuali e grazie alla capacità di istituzioni liberali di non medicalizzare paternalisticamente frustrazione e fallimenti – è tipico delle società chiuse come ben sappiamo derubricare a malattia mentale il dissenso politico e la ricerca dell’indipendenza del singolo dalla comunità – ma piuttosto aiutare le persone a selezionare le informazioni migliori per fare scelte congruenti e ad assumersi delle responsabilità. Nella piena consapevolezza che la responsabilità è il più pesante dei nostri fardelli, che produce ansia, che ci costringe a vedere la realtà come un mondo di scelte individualmente difficili, anche quelle che appaiono socialmente più facili. Solo che la società aperta è il mondo degli adulti e agli adulti non può bastare una favola né uno zuccherino anche chimicamente sofisticato per sentirsi, per usare una parola impegnativa, “felici”.

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