FOTO Getty Images

roma capoccia

Bernini e Borromini, la sfida per la bellezza che ha scolpito Roma

Andrea Venanzoni

Due figure straordinarie, non solo per il genio artistico ma anche per essersi saputi affrancare dalla loro stessa provenienza categoriale ed essersi aperti alla visione urbanistica, incidendo profondamente in epoca barocca sulla fisionomia di Roma

“L’esaltazione degli antichi scrittori procede non dalla reverenza per i morti, ma dallo spirito di rivalità e dalla reciproca invidia dei vivi”, in questa massima enunciata da Thomas Hobbes tra le pagine del ‘Leviatano’ si svela un’insondabile e scomoda verità; molto spesso, e forse pure troppo spesso, il paragone con il passato diventa solo un arido strumento per disinnescare la grandezza di un contemporaneo. E quando non basta nemmeno questo, si colorano le vicende con le carnicine tinte del romanzesco, del gotico, del farsesco, al fine di annebbiare il valore di un artista. Nessuno, sia bene inteso, potrebbe nemmeno scalfire la maestosa grandezza di Gian Lorenzo Bernini e di Francesco Borromini, ma è certo che la loro presenza marmorea nel ventre romano sia stata anche agghindata di una veste d’arlecchino che va a pescare quasi nel gossip e in una feroce rivalità che, coi mezzi linguistici e della cultura digitale d’oggi, potremmo persino rubricare quale “dissing”. Costantino D’Orazio, direttore dei Musei nazionali d’Umbria, è autore del volume “Sfida per la bellezza. Bernini contro Borromini”, edito da Il Mulino: il libro, sin dal titolo e dalla scelta grafica di copertina, la mano sollevata al cielo della statua del Rio della Plata, della Fontana dei quattro fiumi a Piazza Navona, a schermare la vista della Chiesa di Sant’Agnese in Agone, vuole operare una ricostruzione del rapporto e degli scontri di “due geni sul fragile crinale dell’impossibile”, disinnescando quelle eccessive coloriture più affini al gossip che non davvero alla storia dell’arte e all’urbanistica.

Due figure straordinarie, non solo per il genio artistico ma anche per essersi saputi affrancare dalla loro stessa provenienza categoriale ed essersi aperti alla visione urbanistica, incidendo profondamente in epoca barocca sulla fisionomia di Roma. Ricorda D’Orazio, citando Jean Rousset, come e quanto Bernini e Borromini rappresentino un paradigma perfezionato di analisi della Capitale e autentica chiave di lettura dell’epoca barocca. Arte della dissimulazione, del mostrare qualcosa per ciò che quella cosa non è, montagne di cartapesta, allegorie, metafore, visioni, che occludono il senso del reale, spalancando le porte di un meraviglioso sovrabbondante ed effimero. Un gioco che entrambi gli artisti praticano, con sguardo lucido, avendo ben compreso lo spirito dei tempi e soprattutto dei committenti. L’inizio del libro è una fine, anzi, due fini.

 Due notti, barocche, le notti oscure del termine delle esistenze dei due artisti, tanto intimamente diverse da rappresentare la perfezionata ipostatizzazione simbolica della diversità tra i due; tanto inquieta, tormentata, intima la morte di Borromini, quanto lucente, solenne, circondata da affetto e sfarzo quella di Bernini. L’autore ripercorre i dati biografici dei due artisti e le “due strade verso Roma” che condussero lo svizzero e il napoletano nella Città eterna, autentico magnete della grandezza. E se fino al secondo capitolo c’è una sorta di comparazione sinottica avvinta nelle stesse carni del tessuto narrativo, nei successivi capitoli ci si focalizza in maniera autonoma sui due: gli esordi romani del Bernini, tra il marmo e la luce, e il silenzio dei dettagli di un Borromini nel cuore dei cantieri di San Pietro e di Sant’Andrea della Valle. Seguendo le biografie, i pensieri, l’intimità, le vicende e le umane rivalità di Bernini e di Borromini ci specchiamo nella vita stessa di Roma, in ogni angolo raggiunto dallo sguardo potente dei due. Quegli stessi angoli che da abitanti annoiati, annoiati in quanto abituati, non consideriamo più con la dovuta attenzione e che ci facciamo sfuggire sulla pelle e negli occhi, come lacrime di pioggia. E Bernini e Borromini, come un uroboro alchemico, prima divisi, poi riuniti, prima amici poi rivali, tornano narrati assieme nel Baldacchino di San Pietro, “patto di forme” come viene definito nel testo. Il volume di D’Orazio diventa una guida alla città, letta attraverso la lente profonda di due esistenze straordinarie che col loro genio, più che con la loro rivalità, hanno cesellato e scolpito e creato ciò che popoliamo, ogni giorno.

Di più su questi argomenti: