(foto d'archivio Ansa)
roma capoccia
Come la modernità della rotaia ha trasformato i pellegrinaggi giubilari
Il viaggio dei pellegrini e le trasformazioni urbane raccontati tra stazioni, treni e cinema: Roma diventa crocevia di velocità e devozione, in dialogo tra cultura visuale e desiderio di futuro
Viene da chiedersi che cosa ne avrebbe pensato Filippo Tommaso Marinetti, quello che in ‘Democrazia futurista’ scriveva ‘per giungere alla concezione futurista del provvisorio, del veloce e dell’eroico sforzo continuo, bisogna bruciare la tonaca nera, simbolo di lentezza e fondere tutte le campane per farne altrettante rotaie di nuovi treni ultra-veloci’. Trasporto ferroviario e pellegrinaggi giubilari, nel cuore montante di una società della rappresentazione filmica: questo è il cuore del volume ‘Desiderio di Roma’ curato da Dario Edoardo Viganò e Gianluca della Maggiore, pubblicato da Il Mulino. Il sottotitolo è programmatico: ‘pellegrinaggi giubilari e trasporto ferroviario tra media e cultura visuale’. Storici, sociologi, esperti di semiotica e di cinematografia, scandagliano questo in apparenza eterodosso binomio, quello tra trasporto ferroviario e cultura visuale, rovesciando nei fatti l’assioma marinettiano che nella tonaca nera scorgeva i lineamenti mitografici della lentezza. Ed una stazione ferroviaria apre il testo, quella vaticana inaugurata da papa Pio XI nel 1933, al termine del giubileo straordinario; un imponente crocevia semantico che si incunea nel processo trasformativo della città di Roma, ormai funzionalmente interconnessa a mezzo rotaia con altre regioni e città, in una stordente ragnatela di comunità in dialogo.
Il fischio meccanico del treno spezza i millenari silenzi religiosi e contemplativi e del pari fa irrompere, notano i curatori, la potenza del mezzo cinematografico, dell’arte visuale, al cospetto della maestà religiosa; è qui infatti che prendono corpo le vicende del film ‘La porta del cielo’, cui è dedicato un saggio monografico nel corpo del volume e la cui realizzazione rappresenta una storia dal sapore avventuroso e romanzesco quasi, nel cuore nero degli anni dell’occupazione nazista di Roma. La triangolazione fattore religioso, trasformazione urbana e cultura si sublima nel viaggio, da sempre caratterizzazione quasi iniziatica di elevazione individuale o collettiva. In questa prospettiva se anche i Papi si sono messi in viaggio, usufruendo della ferrea tecnologia della rotaia, del pari i pellegrini hanno visto venir meno la tortuosa e lancinante lentezza del viaggio a piedi che in epoche antiche vedeva sciamare verso Roma torme di pellegrini stanchi e coperti di polvere: in una certa misura, il pellegrinaggio velocizzato e accelerato dal treno mobilita e mobilizza la capacità religiosa stessa, portando il Vaticano a collaborare strettamente con le Ferrovie dello Stato. Una lezione che, al di là della prospettiva puramente religiosa, è in fondo al centro del documentario ‘Andata e Ritorno’, presentato al Festival del Cinema di Roma edizione 2025 e realizzato appunto dal Gruppo Ferrovie dello Stato.
Non c’è dubbio alcuno che il treno sin dagli albori della cinematografia, e di ‘L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat’ dei fratelli Lumière del 1895, abbia solleticato la mente degli artisti e degli spettatori: simbolo perfetto di una innovazione che non solo libera la fantasia della tecnologia che irrompe nello spazio sociale ma che, del pari, si irradia, connette, collega, unisce e avvince. E questi aspetti, di liberazione e di unione, trovano perfetta sintesi nella storia, umana prima ancora che storico-culturale, del film ‘La porta del cielo’, in origine titolato ‘La casa dell’angelo’: il progetto di lavorazione arriva sulla scrivania del sostituto alla Segreteria di Stato vaticana Giovanni Battista Montini il 15 marzo 1944. L’appunto, redatto dal Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, è severo; al progetto cinematografico lavorano artisti e artiste squalificati e il Vaticano dovrebbe tenersene fuori. Il film, diretto da Vittorio De Sica e sceneggiato da Cesare Zavattini, è stato a lungo circondato da un’aura di leggenda, e non per la sua trama: si tratta di un pellegrinaggio da Roma a Loreto, a bordo di un ‘treno bianco’, effettuato da alcuni ammalati. In realtà a divenire leggendaria è la vicenda delle riprese, nella Roma occupata dai nazisti, tra eroismi, miserie morali e eccidi. Il film venne girato in ambienti vaticani, ma senza concessione della ferrovia. Un compromesso, perfetto simbolo della Roma dilaniata del tempo.