Screenshot da "I nuovi mostri"

Roma Capoccia

Il mistero di "Francescone": l'attore degli schiaffi ucciso a Centocelle

Andrea Venanzoni

Caratterista del genere “poliziottesco” fu freddato nel ’92 sotto casa. Il suo omicidio resta senza colpevoli. Per la morte di Francesco Anniballi le piste appaiono tutte desolatamente cieche. Non ci sono testimoni, né veri elementi, nemmeno autentici moventi

Il cielo livido di una giornata di fine gennaio incornicia Centocelle. Fa freddo, e l’uomo col sacco della spazzatura in mano si affretta per tornare in casa: d’un tratto si sente chiamare, “Francescone!”, il nomignolo con cui nel quartiere e nel mondo del cinema tutti lo conoscono. Si volta e vede, fermo davanti a sé, appena sceso da una R4 bianca, un uomo col cappuccio del giubbotto tirato sulla testa e una pistola in mano. Non ci vuole molto a capirne le intenzioni. Abbozza una fuga ma non ha scampo. Il killer fa fuoco e le pallottole trapassano una gamba e il petto della vittima, che stramazza a terra agonizzante. Mentre l’assassino si dilegua a tutta velocità a bordo della macchina, Francescone, in una pozza di sangue, chiama la moglie che accorre terrorizzata. La donna non può che raccogliere a sé il corpo del marito, guardare attonita quel volto ormai bianchissimo e vederlo spirare. Così muore, ad appena cinquantuno anni, Francesco “Francescone” Anniballi, caratterista e stunt-man tra i più noti del cinema italiano anni settanta e ottanta.

 

Volto ricorrente nei poliziotteschi e nella saga dell’ispettore Giraldi, qui lo si ricorda soprattutto, in “Squadra antitruffa”, per il ruolo del burbero proprietario della sala giochi dentro cui schiaffeggia, insieme a Tomas Milian, Bombolo. Prestato anche a qualche parte ancora più nota, come in ‘Brutti, sporchi e cattivi’ di Ettore Scola e soprattutto ne “I nuovi mostri” film a episodi diretto da Mario Monicelli, Dino Risi e Scola, nel quale presta il volto a un allibito parrocchiano preso a ceffoni da un cardinale, interpretato da Vittorio Gassman, dopo una predica contro la violenza. Era stato anche controfigura di Bud Spencer, oltre che attore al suo fianco in “Lo chiamavano Bulldozer”. Una vita nel nome degli schiaffi, in pratica. Una delle sue ultime apparizioni, risalente all’anno della sua morte, è davvero un’apparizione in senso quasi metafisico, in “Parenti serpenti”, piccolo gioiellino di satira familiare al vetriolo nel quale però è chiamato a raffigurare un operaio stradale inquadrato per una mera frazione di secondo, in apertura della pellicola.

 

L’impegno cinematografico di Anniballi alla fine degli anni ottanta si era andato diradando, ma lui era rimasto sul campo, come segretario di produzione; una delle sue incombenze era scovare e smistare per i vari set le comparse, un business che in una città a vocazione cinematografica come Roma movimentava diversi interessi, non sempre limpidissimi. Non per caso, gli inquirenti si orientano nelle loro indagini verso un fantomatico racket delle comparse. Non si scarta nemmeno la pista della vendetta di un attore a cui Anniballi avrebbe potuto arrecare qualche, sia pur involontario, sgarbo, magari la mancata chiamata per la partecipazione a questo o a quel film. E già dalla tipologia delle piste battute si capisce subito che l’omicidio ha tutte le premesse per incunearsi in quella vasta sezione dei fatti di sangue di Roma rimasti irrisolti e divenuti faldoni polverosi in qualche archivio. In fondo sono i primi anni novanta, l’assassinio avviene il 27 gennaio del 1992, e la polizia nella Capitale è sotto pressione. Nel 1990 sono stati consumati il delitto di via Poma e quello di Domenico Semeraro, il ‘nano tassidermista’ della stazione Termini che ispirerà il film ‘L’imbalsamatore’ di Matteo Garrone, nello stesso anno scompare Davide Cervia, e negli anni seguenti si consumeranno l’omicidio della commercialista Antonella Di Veroli e la sparizione del bambino Domenico Nicitra, che appare legata ai crimini della Banda della Magliana e della mafia.

 

L’impatto emotivo e mediatico, e quindi politico, di queste vicende, oltre a una quotidianità criminale che a Roma non è mai ordinaria, è enorme: le forze degli inquirenti non sono infinite e tecnologie e strumenti di indagine non sono sofisticati come quelli attuali, niente videocamere disseminate per le strade, niente banche dati enormi. Per la morte di Anniballi le piste appaiono tutte desolatamente cieche. Non ci sono testimoni, né veri elementi, nemmeno autentici moventi. Il racket delle comparse appare un sussurro, una sorta di leggenda metropolitana che si dipana per le vie di Roma, non corroborata però da riscontri oggettivi. Oltre trent’anni dopo, la morte di Francescone rimane un mistero custodito gelosamente dalle viscere di Roma.

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