Roma capoccia

Il sangue di “San Damiano” e quella Roma disperata che nessuno vuole vedere

Con il documentario di Sassoli e Cifuentes ci sdraiamo accanto ai senzatetto della stazione Termini, in un ecosistema di violenza, guerre intestine e amore ubriaco. Storie e volti di un mondo parallelo

Riccardo Carlino

In una Roma parallela vive un esercito disperato, illuminato dalle insegne dei negozi e aggrappato all’asfalto. Di solito ci guardiamo bene dall’avvicinarci troppo, deviamo percorso per paura, per sdegno. Con “San Damiano” invece ci sdraiamo con loro per terra, come hanno fatto i registi Gregorio Sassoli e Alejandro Cifuentes per due anni, senza sosta. Presentato all’ultima Festa del Cinema di Roma, il documentario è in sala solo da poche settimane, con un tour in giro per  tutta Italia che ha registrato già diversi sold out. 

La stazione Termini, crocevia di oltre 150 milioni di persone ogni anno, diventa l’epicentro di un ecosistema fatto di persone messe al margine,  dagli altri e da loro stessi. Damiano è uno di loro, anche se non ci si sente affatto. 35enne, nato in Polonia, raggiunge la Calabria dopo aver abbandonato un ospedale psichiatrico di Breslavia, ma nella Capitale ha sempre visto il trampolino di lancio perfetto per la sua carriera da cantante. I due registi lo incontrano a Termini mentre stanno facendo ricerche per un altro film, mai realizzato. Non dorme per terra, ma in una tenda montata sul punto più alto delle mura aureliane. Da lassù scrive i suoi testi, si ubriaca, urla di gioia e piange per i rimorsi. E noi con lui. Lo sguardo discreto e mai giudicante di Sassoli e Cifuentes squarcia l’oscurità che avvolge il sottobosco della stazione. Donne e uomini da ogni parte del mondo, una birra in una mano e nell’altra una sigaretta, oppure una dose di eroina. Sofia chiede monete al semaforo, si sente la moglie di Damiano anche se spesso arrivano a pestarsi a vicenda. Ogni tanto si rifugia a casa di Costantino, un piccolo barlume di calore in mezzo al disastro. Si autodefinisce “l’ultimo ferroviere”, ed è un anziano signore che abita lì vicino e passa le giornate a tagliare l’erba incolta e pulire i viali. Su un altro materasso ci sono Dorota e Felice. Il loro “matrimonio” viene interrotto proprio da Damiano, che pesta a sangue l’uomo per vendicare l’ennesima violenza  perpetrata  nei confronti della donna,  riprendendo il tutto con un cellulare.  

I loro volti sono arrugginiti, mentre sui corpi che esibiscono alla telecamera spuntano tatuaggi e ferite aperte. Il sangue è una costante quando abiti per strada, soprattutto se si passa dall’amore alla guerra nel giro di pochi minuti. Sotto gli occhi dei passanti si scambiano baci e carezze – se non di più, indistintamente dal genere sessuale –  ma basta una parola di troppo per afferrare una bottiglia rotta e scaraventarla addosso all’altro. In una lotta per il dominio del marciapiede, accentuata da gelosia e alcol, che le forze dell’ordine tentano di sedare prima che si trasformi in un massacro. “T’ammazzo mentre dormi” è forse la frase più emblematica dell’intero racconto. Un senzatetto romano la strilla a Damiano dopo che lui ha riempito di botte un suo amico, colpevole di avergli rubato vestiti e altri oggetti donati dai volontari delle associazioni. 

I loro corpi sono in balia del mondo. Molti finiscono sui cellulari dei follower di Welcome to Favelas (non a caso inseriti fra i ringraziamenti del film) e di Simone Cicalone, che era in sala il 2 maggio a presentare la pellicola con i registi. Con i social network, le loro vicende si trasformano in tragedie a puntante a misura di piccolo schermo. Ne è un esempio chiaro Simone Lopetti, detto “Er Pantera”, noto per ballare tutte le sere di fronte a romani e turisti seduti sugli scalini di Piazza Trilussa, a Trastevere. Nel film compare poco, ma in rete è ormai un meme, come tristemente dimostrano i tanti video in cui i giovani gli lanciano le sfide più disparate. Dal semplice ubriacarsi a tirare palloni su un’auto dei Carabinieri, con annesso arresto. “San Damiano” però è ben distante da quell’ibrido tra citizen journalism, voyeurismo e sensazionalismo a cui i media ci hanno abituato, parlando di degrado urbano. Piuttosto, è una finestra sincera e brutale che si apre proprio laddove i nostri occhi evitano di vedere. E che forse dovremmo smettere di ignorare.