Roma capoccia

Tokyo Revisited, le fotografie di Moriyama e Tomatsu al Maxxi

Andrea Venanzoni

Nei loro scatti, due tra i più significativi fotografi della contemporaneità alternano granulosità porosa e scintillanti colori di un luna-park dell’essenza e un minimalismo bianco/nero sospeso tra fluidità circolare Zen e attesa immota della consunzione

Una città fantasmatica, inglobata nei raggi sinuosi dei neon. Fluttuante, lo ricorda Romain Slocombe, nelle sue contraddizioni. Roland Barthes ne “L’impero dei segni” ha parlato di Tokyo come di un mondo oscillante e senza centro: un ologramma ricombinante serpentinamente dissezionato dalle sue luci e dal suo fiume di carne umana inglobata in frammenti di acciaio accelerato. La città senza apparente oscurità ma che in quel raggio bianchiccio si perde e si riassembla e che finisce per rimanere accecata, per non scorgere più alcuna linea d’orizzonte. Spazio impermanente e in perenne transito, come sottolinea Nobuyoshi Araki che nella sua poetica fotografica ha sussunto il concetto della sparizione totale.

  
Ed ora quel non-visto, quei particolari e quei dettagli irradiati dalla topografia astrale intessuta di tradizione, shintoismo, alta tecnologia, kanji, parlour, manga ed erotismo si dipanano davanti gli occhi dei visitatori del Maxxi: è la Mostra Tokyo Revisited. Daido Moriyama con Shomei Tomatsu, prodotta dal Maxxi con la preziosa collaborazione della Maison Européenne de la Photographie di Parigi e magistralmente curata da Hou Hanru e Elena Motisi.

  
Moriyama e Tomatsu, con Tomatsu che del primo è stato silenzioso maestro e fulcro di ispirazione nel vagabondare ramingo di una poetica disossata e in costante iper-accelerazione, sono due tra i più significativi fotografi della contemporaneità: inquieti, nervosi nei loro scatti, errabondi come nel famoso scatto del cane randagio che Moriyama ha immortalato nel lontano 1971, alternano granulosità porosa e scintillanti colori di un luna-park dell’essenza e un minimalismo bianco/nero sospeso tra fluidità circolare Zen e attesa immota della consunzione.

 
La costante irrinunciabile è la velocità dello scatto, dell’istante che si spezza e si altera e si decompone e che non rinuncia a narrare plasmando l’io del fotografo con l’ambiente e con i soggetti ripresi che finiscono per essere vampirizzati nella introiezione dinamica delle strade notturne, sotto le insegne luminose, nelle fisionomie stanche e assopite, nei corpi erotici e lubrici. Gli scatti sono in esclusiva per l’Italia e cementano un curioso gemellaggio psico-geografico con la città che sembrerebbe in apparenza la negazione e il rovesciamento di senso di Tokyo: Roma. Tanto stratificata nella sua geologia di storia e di centralità mitografica questa ultima, quanto evanescente, irreale e post-moderna la capitale nipponica, traslucida epitome di una intersezione tra Shintou e cyberpunk.

 
Dice la Presidente della Fondazione Maxxi, Giovanna Melandri, che nella nudità esibita di questi scatti, che scavano nell’insondabile consistenza elettrificata di Tokyo, si smuove e si simboleggia la metafora ellittica della condizione umana nel tempo della post-modernità. E questa è in effetti la bellezza intersecata delle poetiche asimmetriche dei due fotografi che pure si congiungono sotto un sole alchemico di sogni infranti, vagabondaggio del senso e desolazione urbana: il segno di una città autoreplicante che si espande come un virus nel cuore di qualunque altra città, Roma inclusa.

 
Ed anche il percorso espositivo scelto diventa una esperienza sensoriale multicromatica che avvolge e immerge il visitatore: la Galleria 3 è divenuta una replica ologrammatica e fluttuante di Shinjuku, di Shibuya, di Roppongi, un insieme di pareti colorate e di wallpaper, cinquecento le foto esposte, e un angolo meraviglioso di photobook, produzione irrinunciabile dell’arte visiva giapponese contemporanea che fonde parola e segno iconografico. In questo senso, non esiste un filo narrativo comune che non sia il tessuto della città stessa: è Tokyo, con le sue luci e le sue strade e la sua umanità in perenne transito, a disvelarsi nei suoi petali neon, nello sferragliare della sua metropolitana, nei suoi manichini dal sapore erotizzante e desiderante, nei love-hotel e nelle carnografie stampigliate in bianco/nero. Nello splendore devastante di una apocalisse post-umana.
 

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