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Quattro film dimenticati che raccontano la “Roma tossica”

Andrea Venanzoni

Entrato nell’immaginario collettivo come film-manifesto del degrado sociale, “Amore Tossico”, il film diretto nel 1983 da Claudio Caligari, mostrava il volto lumpenproletariat di Roma alle prese con la scoperta epifanica della droga: una convergenza su celluloide quasi mistica di eroinomani, ladri, transessuali, prostitute, in una giostra impazzita di storie quotidiane intessute di miseria e con una sinistra ironia. E proprio il sostrato quasi farsesco di alcuni dialoghi e di alcune scene, hanno elevato questo film a simbolo di un’epoca in cui la droga aveva letteralmente colonizzato le periferie capitoline, orientandole verso una disumanizzazione prima latente poi pirotecnica.

   
Ma “Amore Tossico” è in fondo la gemma putrida più esibita di un autentico filone cinematografico che con varie sfumature e assai diverse sensibilità ha investigato il rapporto tra la città e la droga. In principio, fu il devastante “Anna”, film-documentario uscito nel 1975 e girato nel 1972 in presa diretta da Alberto Grifi e Massimo Sarchielli: incontrata una sbandata ragazza incinta, e tossicodipendente, in Piazza Navona, la prendono con loro, la accudiscono in casa e la filmano nella sua quotidianità con un piglio voyeuristico che sembrerebbe ciondolare sulla china sdrucciolevole dell’esibisionismo su pellicola.

   


“Anna” è oggettivamente un pasto difficile: in primo luogo, perché il disagio qui è del tutto reale e documentato. Se anni dopo “Amore Tossico” avrebbe, in una ipotesi di mimesi artistica, utilizzato come attori degli autentici drogati, in “Anna” al contrario si soffre il segno ineludibile di una esistenza che non è chiamata in alcun modo a recitare, a istituire un diaframma che separi la propria tossicità ontologica da quella attoriale ed esibita. In secondo luogo, perché non si saprà più nulla della ragazza protagonista, lasciando in bocca l’amaro retrogusto della reificazione di una carne sofferente esibita dai registi e poi abbandonata al mare d’una vita in tempesta.

  
Non è un film, ma un frammento di un ampio servizio televisivo eternato ormai nell’empireo digitale delle piattaforme di streaming e su YouTube, “Ragionamenti tossici della Borgata Romanina”, risalente al 1976.

   
Nei due brevissimi minuti di video, un ragazzo, che capiamo essere per sua stessa ammissione un eroinomane, si dilunga sull’angoscia esistenziale che sembra trasparire dall’ambiente dove vive, una delle tante borgate che punteggiano la periferia romana: partecipando a quella che appare come una assemblea di quartiere, il ragazzo con lucida saggezza romana irride la preoccupazione, espressa da altri, di avere più autobus, quando poi in realtà la borgata dove tutti vivono determina lo stritolamento quotidiano di qualunque passione e alternativa, rendendo preferibile il deliquio dell’eroina o delle anfetamine.

   
Nel 1979, invece, Marco Modugno realizza uno dei film più misconosciuti e iconici della gioventù tossica capitolina, riesumato anni dopo in una edizione dvd con copertina shock: parliamo di “Bambulè”, una visionaria rappresentazione parzialmente on the road di alcuni ragazzi romani, tossici dalle agitate inquietudini esistenziali nutrite di tedio e di assenza di stimoli, che arriveranno a una tragica, inevitabile e stupidissima fine.

  

   
Il crepuscolo di questo autentico filone filmico-storico è senza dubbio rappresentato dal crudissimo e nichilista “L’imperatore di Roma”, diretto da Nico D’Alessandria e considerato, a ragione, un capolavoro. Film non facile, segue la quotidianità devastata di Gerardo “Jerry” Sperandini, tossicomane con un passato di internamenti in ospedale. Jerry è figura sciamanica dai lineamenti da rocker vichingo: affidato dal magistrato di sorveglianza al regista, visse con questi per trenta giorni, tempo utile per la realizzazione. Integralmente girato in bianco/nero in una Roma oscura e degradata, il film non narra né analizza, ma semplicemente mostra questo autoproclamato Imperatore di Roma che cammina e vaga nel ventre sordo e osceno della città eterna, tra barboni, prostitute e altri tossici. Sperandini sarebbe poi morto nel 1999 per le complicazioni dovute al diabete.
 

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